Papa Francesco: le amarezze sono vinte dalla comunione

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‘Preghiamo, digiuniamo ed esercitiamo le opere di misericordia in questo tempo di grazia, affinché il Signore possa trovare i nostri cuori pronti per ricolmarli con la vittoria del suo amore’: il tweet odierno di papa Francesco ha introdotto la liturgia penitenziale celebrata nella basilica di san Giovanni, presieduta dal card. Angelo De Donatis, vicario generale per la Diocesi di Roma.

L’omelia è stata quindi letta dal vicario generale in quanto papa Francesco era leggermente indisposto a causa di un raffreddore. Nello scritto papa Francesco ha proposto una lettura ‘ad intra’ sul rapporto del sacerdote con la fede: “Non desidero tanto riflettere sulle tribolazioni che derivano dalla missione del presbitero: sono cose molto note e già ampiamente diagnosticate. Desidero parlare con voi, in questa occasione, di un sottile nemico che trova molti modi per camuffarsi e nascondersi e come un parassita lentamente ci ruba la gioia della vocazione a cui un giorno siamo stati chiamati.

Voglio parlarvi di quell’amarezza focalizzata intorno al rapporto con la fede, il Vescovo, i confratelli. Sappiamo che possono esistere altre radici e situazioni. Ma queste sintetizzano tanti incontri che ho avuto con alcuni di voi”.

Queste riflessioni sono state frutto di ascolto di seminaristi, ricordando le parole di sant’Ireneo (Ciò che non è assunto, non è redento): “Guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarsi con esse ci permette di prendere contatto con la nostra umanità, con la nostra benedetta umanità. E così ricordarci che come sacerdoti non siamo chiamati a essere onnipotenti ma uomini peccatori perdonati e inviati”.

Per il papa la prima causa di amarezza sono i ‘problemi’ con la fede: “Una speranza delusa è alla radice della loro amarezza. Bisogna però riflettere: è il Signore che ci ha delusi oppure noi abbiamo scambiato la speranza con le nostre aspettative?

La speranza cristiana in realtà non delude e non fallisce. Sperare non è convincersi che le cose andranno meglio, bensì che tutto ciò che accade ha un senso alla luce della Pasqua. Ma per sperare cristianamente bisogna (come insegnava sant’Agostino a Proba) vivere una vita di preghiera sostanziosa. E’ lì che si impara a distinguere tra aspettative e speranze”.

Infatti tutti nutrono aspettative nei confronti di Dio, ma queste non sempre si trasformano in speranza: “Che differenza c’è tra aspettativa e speranza? L’aspettativa nasce quando passiamo la vita a salvarci la vita: ci arrabattiamo cercando sicurezze, ricompense, avanzamenti… Quando riceviamo quel che vogliamo sentiamo quasi che non moriremo mai, che sarà sempre così! Perché il punto di riferimento siamo noi.

La speranza è invece qualcosa che nasce nel cuore quando si decide di non difendersi più. Quando riconosco i miei limiti, e che non tutto comincia e finisce con me, allora riconosco l’importanza di avere fiducia… La speranza si regge su un’alleanza: Dio mi ha parlato e mi ha promesso nel giorno dell’ordinazione che la mia sarà una vita piena, con la pienezza e il sapore delle Beatitudini; certo tribolata, come quella di tutti gli uomini, ma bella. La mia vita è gustosa se faccio Pasqua, non se le cose vanno come dico io”.

Ed anche l’amarezza fa parte della vita: “L’amarezza, che non è una colpa, va accolta. Può essere una grande occasione. Forse è anche salutare, perché fa suonare il campanello d’allarme interiore: attento, hai scambiato le sicurezze con l’alleanza, stai diventando ‘stolto e tardo di cuore’.

C’è una tristezza che ci può condurre a Dio. Accogliamola, non ci arrabbiamo con noi stessi. Può essere la volta buona. Anche san Francesco d’Assisi lo ha sperimentato, ce lo ricorda nel suo Testamento. L’amarezza si cambierà in una grande dolcezza, e le dolcezze facili, mondane, si trasformeranno in amarezze”.

Il secondo punto riguarda il rapporto con il vescovo: “Il vero problema che amareggia non sono le divergenze (e forse nemmeno gli errori: anche un vescovo ha il diritto di sbagliare come tutte le creature!), quanto piuttosto due motivi molto seri e destabilizzanti per i preti”.

Per il papa il problema nasce quando la comunione non è aperta alla parresia: “La parresia è sepolta dalla frenesia di imporre progetti. Il culto delle iniziative si va sostituendo all’essenziale: una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti. L’adesione alle iniziative rischia di diventare il metro della comunione.

Ma essa non coincide sempre con l’unanimità delle opinioni. Né si può pretendere che la comunione sia esclusivamente unidirezionale: i preti devono essere in comunione col vescovo… e i vescovi in comunione con i preti: non è un problema di democrazia, ma di paternità”.

Ed ha esposto il metodo sinodale di san Benedetto sul discernimento: “San Benedetto nella Regola, siamo nel celebre capitolo III, raccomanda che l’abate, quando deve affrontare una questione importante, consulti la comunità intera, compresi i più giovani. Poi continua ribadendo che la decisione ultima spetta solo all’abate, che tutto deve disporre con prudenza ed equità.

Per Benedetto non è in discussione l’autorità, tutt’altro, è l’abate che risponde davanti a Dio della conduzione del monastero; però si dice che nel decidere egli deve essere ‘prudente ed equo’. La prima parola la conosciamo bene: prudenza e discernimento fanno parte del vocabolario comune”.

Un altro punto sottolineato dal papa riguarda il significato di equità secondo il patrono d’Europa: “Equità vuol dire tenere conto dell’opinione di tutti e salvaguardare la rappresentatività del gregge, senza fare preferenze. La grande tentazione del pastore è circondarsi dei ‘suoi’, dei ‘vicini’; e così, purtroppo, la reale competenza viene soppiantata da una certa lealtà presunta, senza più distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata… Certo, in questo tempo di precarietà e fragilità diffusa, la soluzione sembra l’autoritarismo (nell’ambito politico questo è evidente). Ma la vera cura, come consiglia san Benedetto, sta nell’equità, non nella uniformità”.

L’ultimo punto di amarezza sono i problemi interpersonali ed il rischio di autoisolamento: “Il mondo della grazia ci è diventato a poco a poco estraneo, i santi ci sembrano solo gli “amici immaginari” dei bambini. Lo Spirito che abita il cuore, sostanzialmente e non in figura, è qualcosa che forse non abbiamo mai sperimentato per dissipazione o negligenza. Conosciamo, ma non ‘tocchiamo’. La lontananza dalla forza della grazia produce razionalismi o sentimentalismi. Mai una carne redenta”.

Ed infine il consiglio di affidarsi ad un padre spirituale: “Il demonio non vuole che tu parli, che tu racconti, che tu condivida. E allora tu cerca un buon padre spirituale, un anziano ‘furbo’ che possa accompagnarti. Mai isolarsi, mai! Il sentimento profondo della comunione si ha solamente quando, personalmente, prendo coscienza del ‘noi’ che sono, sono stato e sarò.

Altrimenti, gli altri problemi vengono a cascata: dall’isolamento, da una comunità senza comunione, nasce la competizione e non certo la cooperazione; spunta il desiderio di riconoscimenti e non la gioia di una santità condivisa; si entra in relazione o per paragonarsi o per spalleggiarsi”.

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