Una riflessione per capire significato e importanza attualissima degli Ordini Cavallereschi religiosi-militari

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Nei giorni scorsi ho riflettuto (molto) sulle reazioni ottenute da un post pubblicato sulla pagina Facebook istituzionale dell’Ufficio Stampa della Real Commissione per Italia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio (di cui, come sapete, dal 17 giugno 2020 nella Cancelleria il Responsabile della Comunicazione).
Con questo post avevo data la notizia della comparsa di S.A.R. la Principessa Donna María del Pilar di Borbone-Spagna e Borbone delle Due Sicilie, Duchessa di Badajoz, Viscontessa vedova de la Torre, Infanta di Spagna, Dama di Gran Croce di Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, avvenuto presso la Clinica Ruber Internazionale di Madrid a causa di un carcinoma . Ho battuto la notizia alle ore 17:21 dell’8 gennaio 2020, quindi prima ancora che siti spagnoli come ABC, El Pais o La Vanguardia battessero la notizia del decesso di Dona Pilar.

Da allora, fino a questa mattina, questo post – possiamo dire nel nostro piccolo – è diventato virale sui social, avendo raggiunto – solo al post in questione – 8.032 persone e avuto 2.019 interazioni, 45 commenti e 41 condivisioni (a loro volta condiviso su numerosi altri profili dei social network).
Questi dati statistici – che rappresentano un risultato non male per una pagina Facebook, che è stata creata soltanto il 27 novembre 2019 e dopo poco più di un mese viene seguita già da 765 persone – portano ad una riflessione di ordine generale, circa il significato attuale e per il futuro dell’ideale cavalleresco, di cui Dona Pilar era un faro che rimarrà a splendere.
Ciò è stato esemplificato in modo empatico, con la breve storia di questa grande donna dei nostri tempi, una vera Borbone, figlia di un re che non poté regnare, che ha combattuto per tutta la vita per portare con dignità il di Capo della Casa Reale di Spagna, sorella dell’architetto del ritorno della democrazia (S.M. Juan Carlos di Borbone) e zia di chi ha la sfida di tener unita questa grande nazione (S.M Filippo VI di Borbone, Re di Spagna, di cui lei ha detto che è “un ragazzo stupendo”), raccontata nella Nota pubblicata su Larazon.es il 8 gennaio 2020 da Amadeo-Martín Rey y Cabieses [*].
In un’epoca di autismo sociale come è la nostra, l’empatia è la chiave per comunicare (e comunicare bene il bene – che è del Signore – per contrastare con tutte le forze il male – che è nel mondo per opera dell’antico serpente maligno, il grande accusatore e bugiardo, il malvagio portatore di divisione e di distruzione), come ha osservato in un suo volume il colombiano Ary Waldir Ramos Diaz, giornalista, scrittore e insegnante, accreditato presso la Sala Stampa della Santa Sede come corrispondente estero per la testata giornalistica Aleteia.org.
Raccontare storie brevi, che parlano di fatti familiari con un significato spirituale e concreto – come ha fatto in modo encomiabile Rey nella sua Nota-, coinvolge molto di più di un discorso religioso, pomposo, teorico e astratto (per non dimenticare l’effetto nefasto di certe insipide e noiose omelie). Le storie permettono alle persone che le ascoltano, di identificarsi, di specchiarsi, di ispirarsi, di armarsi con la resilienza, che rappresenta l’armatura moderna del cavaliere nel terzo millennio ed è forgiata con la metacognizione.

San Giorgio di Carlo Crivelli, Metropolitan Museum of Art, New York.

Scive Rey: “Se quando parliamo di un Borbone ci riferiamo a una persona schietta, diretta, con sense of humor e, naturalmente, lealtà verso la Corona che il padre e il fratello hanno rappresentato e che ora fa con grande serietà Don Felipe VI, allora l’Infanta Doña Pilar, morta oggi, era una vera Borbone. (…) Come molte principesse europee, Doña Pilar ribadiva costantemente che il suo dovere non era solo quello di essere vicino al trono e sostenerlo, ma di servire bene, dalla sua posizione, a tutte le cause che lo giustificano, specialmente quelle che significano aiutare gli altri. Si era diplomata come infermiera, di solito era presente su invito della Croce Rossa o dell’Associazione spagnola contro il cancro e veniva sempre coinvolta nelle iniziative di beneficenza di Nuovo Futuro che si occupa di bambini senza fissa dimora, di cui era presidente d’onore. Si è adoperato per le raccolte di beneficenza e ha parlato con tutti con la sua tipica giovialità e spontaneità. Da buona Amazzone, amava i cavalli e il loro mondo e quindi era presidente della Federazione equestre internazionale per più di dieci anni, essendo anche membro del Consiglio d’onore del Comitato olimpico internazionale”.
Per capire meglio il significato – non solo storico, ma per i giorni nostri, in quell’orientamento verso il futuro che è motivazione e scopo della resilienza – degli Ordini Cavallereschi ad un tempo religioso-militare (come il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, sotto il Gran Magistero di S.A.R. il Principe Don Pedro di Borbone delle Due Sicilie, Duca di Calabria, Conte di Caserta, Grande di Spagna, quindi dello stesso ramo primogenito dei Conti di Caserta, da cui discendeva anche Dona Pilar), è utile citare alcuni passi dall’approfondimento offerto dal Rapporto 2016 della “International Commission for Orders of Chivalry” (ICOC) sull’ideale cavalleresco. Un ideale attualissimo, che è espresso con suo particolare significato nel motto del cavaliere : “La mia anima a Dio, la mia vita al Re, il mio cuore alla donna, l ’onore per me”.

San Giorgio di Lydda, Megalomartire. Statua di San Giorgio che si conserva a Trentola Ducenta, Caserta.

“La Cavalleria è uno dei fenomeni della nostra civiltà più affascinanti. Essa è nata dalla fusione di due elementi in origine contrapposti: il cavaliere inteso come guerriero a cavallo ed i principi della Chiesa Cattolica che hanno ‘santificato’ la missione del cavaliere volgendola al bene ed al giusto. Il combattente a cavallo, per quanto si perfezionasse nella tecnica di combattimento e per quanto migliorasse il proprio equipaggiamento, sarebbe rimasto solamente e semplicemente un militare. La Chiesa ha indirizzato questi uomini di guerra verso scopi buoni e positivi, li ha spronati a combattere per cause giuste in difesa dei deboli e degli oppressi, ha insegnato loro a non abusare della propria forza per arricchire se stessi o per ottenere potere personale, ha insegnato loro ad essere altruisti ed a dedicarsi agli altri nell’esercizio perenne della carità, ne ha fatto degli uomini leali che sentivano profondamente il senso dell’onore e dell’amicizia. La cavalleria è costituita da tutti questi ideali e questi principi che ne formano la sostanza e l ’intima essenza. I cavalieri che si uniformavano a questo stile dì vita erano uomini universalmente rispettati ed ammirati, sui quali sorsero leggende e miti. Di essi furono scritte le eroiche imprese raccolte nelle ‘chanson de geste’ e dei loro amori tanto cantarono i trovatori provenzali o i trovieri nordici”.
“Poiché la cavalleria comprendeva uomini altamente motivati, con gli stessi scopi e lo stesso stile di vita, essa divenne di conseguenza una sorta di associazione riservata ed esclusiva. La necessità di conservare i propri principi e la cautela di proteggersi da infiltrazioni di aspiranti non meritevoli furono la conseguenza logica naturale della sua trasformazione in casta. L’origine degli Ordini cavallereschi religiosi o militari, oppure ad un tempo religioso-militari, è il prodotto della capacità aggregante della cavalleria. Il cavaliere di oggi non è più il guerriero a cavallo, ma è colui che ha fatto propri questi ideali e si sforza di metterli in pratica perché sono universali e positivi e sono pienamente attuali e validi”.
Nell’evoluzione della cavalleria a partire dal guerriero a cavallo in Asia centrale 3.000 anni prima della nascita di Cristo; il Cavaliere divenuto unità autonoma da combattimento nel VII secolo; le innovazioni tecnologiche riguardanti la cavalleria nel VIII secolo che provocarono una vera rivoluzione nell’arte del cavalcare con delle innovazioni che portarono poi al perfezionamento del cavaliere come macchina da guerra; “il cavaliere sarebbe comunque rimasto soltanto un guerriero tecnicamente ed economicamente organizzato se, ad opera del Cristianesimo, egli non avesse assunto precisi impegni religiosi e morali”: “Anche la Chiesa per avvicinarsi al guerriero dovette vincere un’iniziale ritrosia: i problemi morali legati alla necessità di usare le armi e di combattere impregneranno profondamente tutta la spiritualità medievale. Quando la realtà storica dimostrò che gli eserciti non avevano solamente funzione di offendere, di conquistare, di opprimere, ma servivano anche a conservare l ’ordine e la pace, a difendere i confini dagli invasori, a garantire una pacifica convivenza, si fece strada la dottrina della ‘guerra giusta” cioè di quella intrapresa a difesa del Cristianesimo, della fede e della civiltà. L’ideale cavalleresco che si sviluppò alla luce del Cristianesimo imponeva una certa serie di obblighi ed impegni che non furono mai codificati in un testo universalmente accettato. Il cavaliere prometteva solennemente di combattere contro gli infedeli e di difendere la religione. Volendo fare una sintesi schematica del contenuto del termine ‘ideale cavalleresco’ e degli obblighi e delle prerogative del cavaliere si dirà che egli si riprometteva in campo religioso la difesa della religione cattolica, la protezione della Chiesa e del clero, la sottomissione alla Chiesa, la severa pratica religiosa, il sacrificio eventuale della vita per la fede, la lotta contro gli infedeli, l’esercizio della carità e della generosità verso i poveri; in campo civile l ’aiuto dei deboli, delle donne, degli orfani e dei poveri, l’uso della propria forza solo a fin di bene, il trionfo della giustizia e del diritto, la lotta contro le guerre e le cause ingiuste, la difesa degli innocenti, degli oppressi e dei perseguitati; in campo morale il culto del proprio onore e la nobiltà d’animo, l’umiltà, la lealtà verso tutti, il valore, il coraggio ed ogni altra virtù, l’asserzione della sola verità, la non ricerca del proprio arricchimento, la pietà nei combattimenti”.
“Non stupisce che la Chiesa sia intervenuta per conferire alla investitura del cavaliere, che pure era un uomo di guerra, un carattere sacrale e nobilitante quasi a somiglianza dell’incoronazione regale. Lo benediceva con un apposito rito e gli porgeva le armi da usare a fin di bene raccogliendo a garanzia il giuramento del cavaliere che si impegnava ad operare in tal senso. La pratica dell’investitura non fu una invenzione cristiana, fu invece la ripresa di una usanza delle tribù germaniche. Il giovane germanico non si dedicava ad alcuna attività fino a che gli venivano consegnate pubblicamente le armi dal padre o dal capo. Questa cerimonia che prima di tutto costituiva una sorta di raggiungimento della maggiore età e comportava il dovere di difendere la tribù, costituiva anche il primo onore della giovinezza. Anche i giovani romani ricevevano la toga al raggiungimento della maggiore età, ma questo era un semplice atto dovuto che non portava con se alcun altro significato. L’uso germanico della consegna delle armi nel Medio Evo si consolidò e la cerimonia dell’investitura divenne una prerogativa della Chiesa e fu codificata e regolata minutamente come una vera e propria liturgia a partire dal X secolo. La cerimonia era imponente ed era seguita da feste che si protraevano per diversi giorni. Il pomeriggio precedente il giorno dell’investitura il futuro cavaliere si confessava preparandosi spiritualmente al rito religioso. Poi all’imbrunire iniziava la lunga veglia d’armi: indossata una tunica bianca si raccoglieva in preghiera per l ’intera notte in una cappella davanti all’altare sul quale era posata la spada che stava per cingere. Al mattino egli si comunicava e quindi si recava sul luogo dell’’addobbamento. Il celebrante, in genere un Vescovo, benediceva le armi e deponeva la spada sull’altare, rammentava al cavaliere gli impegni che stava per assumersi, recitava le preghiere previste dal rituale e poi lo armava porgendogli gli speroni. Per completezza va detto che molte investiture avvenivano ‘sul campo’, con cerimonie rapidissime, alla vigilia di una battaglia per rimpiazzare i caduti, o dopo una vittoria per premiare i più valorosi”.

[*] Dott. Don Amadeo-Martín Rey y Cabieses, medico e storico, Professore di Dinastie Reali all’Universidad Rey Juan Carlos, Accademico Numerario e Direttore di pubblicaizone della Real Academia Matritense de Heráldica y Genealogía, Accademico Corrispondente della Real Academia de la Historia, Vice Auditore Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.

San Giorgio che combatte il drago. Libro d’Ore di Etienne Chevalier, un codice miniato di Jean Fouquet, databile al 1452-1460 e in più musei: Museo Condé di Chantilly, British Library di Londra (Add. 37.421), Metropolitan Museum di New York, Bibliothèque nationale de France di Parigi (Lat 1416), Departement des Arts graphiques del Louvre di Parigi (RF 1679, MI 1093), Museo Marmottan di Parigi e Upton House di Bearsted. L’opera è considerata tra i capolavori di Fouquet e della miniatura del XV secolo in generale. Ogni pagina, in pergamena, misura 16,5×12 cm.

San Giorgio Martire (Cappadocia, 275-285 circa-Nicomedia, 23 aprile 303) è stato, secondo una consolidata e diffusa tradizione, un martire cristiano, venerato come santo megalomartire (in greco Hàghios Geòrgios ho Megalomàrtys, Ἅγιος Γεώργιος ὁ Μεγαλομάρτυς) da quasi tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi. Il santo sauroctono morì prima dell’Imperatore Costantino I, il “trionfante sulla tirannia degli empi”, probabilmente sotto le mura di Nicomedia, secondo alcune fonti nel 303. Il suo culto è molto diffuso ed è antichissimo, risalendo almeno al IV secolo. Patrono del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.
“I primi testi che narrano l’episodio [di San Giorgio e del drago] risalgono alla fine dell’XI secolo e contengono già tutti gli elementi che conosciamo: il mostro lacustre, la principessa salvata, l’addomesticamento del drago condotto in città, la conversione del popolo.
La storia di San Giorgio e del drago si stava diffondendo, ma avrebbe mantenuto ancora a lungo una dimensione locale, circoscritta alle regioni orientali, se non fosse stato per le Crociate. I cristiani si identificarono facilmente nel santo vittorioso che aveva liberato una terra in mano agli infedeli: come santo protettore dei crociati, nessuno era più adatto di san Giorgio.
Ma anche un altro fattore potrebbe aver contribuito al successo del santo tra i soldati pellegrini: la visione, a Bisanzio, di una grande tavola dipinta raffigurante un sovrano che trafigge un drago, schiacciandolo sotto i suoi piedi. L’immagine era posta davanti al vestibolo del Palazzo imperiale e rappresentava l’imperatore Costantino I trionfante sulla ‘tirannia degli empi’, simboleggiata da un drago-serpente. L’iconografia aveva goduto di grande fortuna ed è plausibile che i crociati ne avessero visto un esemplare, poi sovrapposto all’impresa del santo sauroctono.
In tempi rapidissimi il culto di San Giorgio si diffuse in tutta Europa, e con esso la rappresentazione del cavaliere che uccide il drago (in Inghilterra la prima immagine è dell’inizio del XII secolo). Mentre in Oriente il mostro aveva un aspetto simile al serpente, la versione esportata dai crociati aumentava di dimensioni e acquistava zampe e ali, trasformandosi nel drago che tutti noi conosciamo” (Foliamagazine.it, traduzione italiana di Luigi Pellini).

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