Mons. Pizzaballa lancia un appello alla pace

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“La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità. Sperare nella pace è un atteggiamento umano che contiene una tensione esistenziale, per cui anche un presente talvolta faticoso ‘può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino’. In questo modo, la speranza è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili”.

Partendo dal messaggio per la giornata della pace di papa Francesco, mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini, ha incentrato l’omelia del primo giorno dell’anno a riflettere sul significato della giornata:

“L’intuizione di Papa Paolo VI è ancora attualissima ed è significativo che si affidi la giornata per la Pace all’intercessione della Vergine Maria, di cui oggi celebriamo la maternità divina. Come in ogni famiglia, anche nella Chiesa abbiamo bisogno di affidare alla nostra Madre questo ruolo unico, affascinante e insostituibile di mediazione, intercessione e custodia dei nostri più veri e profondi desideri, e il primo tra questi è proprio la pace”.

L’amministratore apostolico ha sottolineato che in Medio Oriente il messaggio papale è di difficile attuazione: “Onestamente, dobbiamo riconoscere che sono parole piuttosto lontane dalla nostra esperienza attuale qui, nella nostra Terra Santa. Sembra infatti che da molto tempo non vi sia un dialogo reale, se non in piccole seppur significative istituzioni, in piccole nicchie, insomma, ma non certo tra le autorità, siano esse politiche o religiose o a livello generale.

La parola ‘riconciliazione’, inoltre, qui da noi è quasi un tabù. Come possiamo parlare di riconciliazione finché sussiste nella nostra terra questa situazione di ingiustizia? La conversione ecologica, infine, nemmeno comprendiamo cosa sia. E’ un tema di capitale importanza e di dimensione globale, ma è discusso quasi esclusivamente nei paesi ricchi, non certo nel nostro”.

E si è soffermato a riflettere sul significato del dialogo in un momento tanto difficile nell’area mediorientale: “Sono certo che a molti di noi questa parola sia diventata fastidiosa. E’ fastidiosa perché vediamo da un lato il suo uso continuo in tutti i nostri discorsi pubblici e privati, ma dall’altro vediamo che la realtà è opposta a quanto diciamo continuamente. Sembra, cioè, che non vi sia molto dialogo tra noi”.

Il dialogo è un ostacolo anche nella società civili e nelle comunità religiose: “Non solo nell’ambito politico, ma anche tra le varie parti che costituiscono le nostre società, nell’ambito del lavoro ad esempio, tra i membri delle diverse fedi religiose, all’interno delle nostre famiglie, nelle nostre comunità religiose e parrocchiali… senza andare a scomodare la politica e i grandi di questa nostra terra, restando nei nostri contesti ecclesiali, vediamo che i nostri parroci devono intervenire sempre più spesso per mediare all’interno delle nostre famiglie, i nostri tribunali ecclesiastici stanno cercando di creare strutture di sostegno al dialogo per le famiglie, per evitare che prima di chiedere la separazione ufficiale, provino almeno a parlarsi.

Non parliamo poi dei problemi nelle comunità religiose. Il dialogo è diventato un po’ il sinonimo di un atteggiamento irenico quanto irrealistico… insomma questa parola è costitutiva della nostra vita relazionale a tutti i livelli, la usiamo sempre eppure sembra che non lo sappiamo fare poi così bene”.

Però il dialogo è costitutivo per la pace: “Il dialogo, tuttavia, è costitutivo per qualsiasi prospettiva di pace. La pace, infatti, è allo stesso tempo il frutto del dialogo, ma anche la sua premessa: il dialogo vero e sincero porta alla pace nelle relazioni; allo stesso tempo, per dialogare seriamente è necessario avere un desiderio di pace e di incontro”.

In questi 50 anni mons. Pizzaballa ha constatato che i conflitti sono aumentati: “A livello sociale si può parlare più di negoziazione che di dialogo, cioè difesa di interessi specifici, di accordi contrattuali, e meno di atteggiamenti di fiducia reciproci.

Le famiglie e in generale la coesione sociale sono diventate più fragili; aumentano le nostalgie identitarie contro il pluralismo religioso e culturale e in generale contro le complessità delle nostre società; le religioni sono percepite come fattori contrari alla coabitazione e fomentatrici di violenza. Anziché cercare di risolvere le questioni nell’ascolto reciproco, si fa appello alle autorità forti, che risolvano i problemi a nome nostro, risparmiandoci la fatica del percorso da fare insieme”.

Ed ha tracciato il compito della Chiesa nel Medio Oriente: “Il punto di partenza delle nostre strategie pastorali deve partire non tanto dalla situazione delle nostre Chiese e comunità che può a volte preoccupare, ma dalla vocazione che le nostre Chiese hanno in questo contesto così difficile. Questa vocazione consiste nel concentrarci maggiormente su dinamiche belle e buone di vita all’interno delle comunità e fuori di esse; respingere le tentazioni della fuga e della rassegnazione; evitare il facile compromesso con il potere o la risposta violenta”.

Quindi la missione della Chiesa è nella testimonianza: “La nostra missione in queste nostra terra, pur tra le difficoltà che conosciamo, vissuta però nel dono gratuito e generoso di noi stessi, è il nostro modo concreto per fare come ha fatto il Signore perché ci sia risurrezione per noi e per la nostra Chiesa. Saremo Chiesa ‘interessante’ nella misura in cui la nostra profezia sarà la nostra testimonianza quotidiana. Vale a dire che in un contesto sociale e politico dove la sopraffazione, la chiusura e la violenza sembrano l’unica parola possibile, noi continueremo ad affermare la via del Vangelo come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace”.

Però il cristiano deve pregare per la pace: “Costruire la pace significa poi perseverare nella fede e nella intercessione. Pregare è il primo modo per stare come Chiesa ‘tra’ gli uomini e Dio, coinvolti e partecipi del loro grido e della loro invocazione e allo stesso tempo con lo sguardo e il cuore rivolti al Cielo. Una liturgia e una preghiera che non siano solo preservazione e riproposizione di riti, ma che si aprano alle speranze e alle angosce di tanti fratelli e sorelle. E’ il primo servizio che come Chiesa siamo chiamati a offrire”.

Gli altri ‘servizi’ della pace complementari alla preghiera sono la carità ed il dialogo ecumenico: “E il secondo servizio è simile al primo: condividere fattivamente la fatica e la sofferenza delle vittime, dei deboli e dei poveri, con una carità viva e intelligente, che testimoni una possibilità diversa di stare al mondo… La Chiesa deve ogni giorno opporre alla strategia della contrapposizione e dello scontro, l’arte dell’incontro e del dialogo, non per una tattica opportunista, o per mera strategia di sopravvivenza, ma perché il dialogo è costitutivo della relazione di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro”.

Ha concluso l’omelia invitando i cristiani ad essere ‘parola’ di speranza: “I nostri fedeli attendono da noi una parola di speranza, di consolazione, ma anche di verità. Non si può tacere di fronte alle ingiustizie o invitare i cristiani al quieto vivere e al disimpegno. L’opzione preferenziale per i poveri e i deboli, però, non fa della Chiesa un partito politico.

La Chiesa ama e serve la polis e condivide con le Autorità civili la preoccupazione e l’azione per il bene comune, nell’interesse generale di tutti e specialmente dei poveri, alzando sempre la voce per difendere i diritti di Dio e dell’uomo, ma non entra in logiche di competizione e di divisione. Si impone qui un discernimento davvero difficile e mai raggiunto una volta per tutte su cosa e come parlare”.

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