Olimpiadi e censura, oltre l’ipocrisia e i passi indietro

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E’ la notizia del momento: la Cina censura i media, nonostante le Olimpiadi. E conta poco se in queste ore il Comitato organizzatore ha annunciato un passo indietro. I primi giornalisti arrivati a Pechino per seguire l’evento si sono resi conto subito che dietro il grande centro stampa, c’è anche un grande controllo. L’accesso alla rete non è libero, molti siti sono stati oscurati (anche se dovrebbero tornare visibili) e c’è il timore che anche la corrispondenza venga passata al setaccio. Apriti cielo: immediata la protesta dei media e della federazione mondiale della stampa, mentre Kevan Gosper, responsabile stampa del Cio, ammette che forse sarebbe stato il caso di avvisare prima i giornalisti.

”Non avremmo dovuto fare una simile sorpresa ai media”, aveva detto l’australiano, facendo quasi da contraltare alle dichiarazioni di Sun Weide, portavoce del comitato organizzativo: “Solo alcuni siti sono bloccati perchè violano la legge cinese. Noi speriamo che i mass media stranieri rispettino le leggi e i regolamenti cinesi”. Dopo le proteste, rimangono oscurati soltanto i siti legati alla setta Falun Gong, ma la situazione non è ancora chiara. Questo lo scenario: se non fosse reale, sarebbe da liquidare con una bella risata. Eppure, di tutta la vicenda colpisce la sottile ipocrisia di fondo. Del resto, che cosa poteva aspettarsi il mondo da una dittatura, da un sistema in cui guardiani telematici vanno ad arrestare a casa blogger considerati pericolosi, da un regime che non contempla libertà di espressione, di culto, di pensiero?

Se a volte la credibilità è una sfida anche per un Paese democratico, figurarsi per uno stato autoritario. Sono le tristi condizioni di vita, ben note a tutti, che forse avrebbero dovuto suscitare qualche perplessità già al momento dell’assegnazione dei giochi. Invece, si sono fatti tanti discorsi sui margini di cambiamento della Cina, sulle opportunità di offrire al Paese una finestra sul mondo, sulla libertà strettamente legata allo sviluppo economico. Il tutto, per scontrarsi, a meno di una settimana dall’inizio delle Olimpiadi, con una realtà ben diversa.

Che fare ora? Inutile stracciarsi le vesti e indignarsi. Non lo fa la politica internazionale (pronta ad accorrere in massa alla cerimonia di apertura), non possono farlo i cinesi, non si pone problemi nemmeno il mondo dello sport. C’è però una terza via ed è quella di chi non cede al compromesso, di fronte agli ideali del proprio lavoro e della propria professionalità. Tradotto in soldoni: la stampa internazionale abbia il coraggio di dare un segnale forte, all’insegna della regola: “Mi censuri? Bene, io ti ignoro”.

Se Pechino non scenderà a patti, si crei un bel vuoto informativo sull’evento, non facendo da cassa di risonanza al “giocattolino”, denunciando se possibile il contesto in cui è inserita la vetrina olimpica, bandendo la retorica. Fuori gli attributi, dunque, per far capire che un giornalismo libero non accetta condizionamenti. E guai se qualcuno farà come qualche leader politico o come il nostro ministro degli Esteri, intervenuto con assoluta nonchalance sul tema dei diritti umani: ”Ne riparleremo ad ottobre”.

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