Aiuto al suicidio, giudici creativi e la profezia di Livatino

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Papa Francesco, durante l’udienza ai membri del Centro Studi Rosario Livatino dello scorso 29 novembre, è tornato sui ‘valori non negoziabili’, riaffermando la sacralità della vita contro qualsiasi arbitrio statale, in particolare, per l’attualità delle pronunce, contro orientamenti creativi della giurisprudenza.

Il pensiero non può non andare alla recente sentenza della Consulta, che ha dichiarato illegittimo l’art. 580 c.p., rubricato ‘aiuto al suicidio’, “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Prendendo a modello la l. 219/2017, che introduce nel nostro ordinamento le disposizioni anticipate di trattamento, la Corte depenalizza, in modo più o meno velato, il suicidio assistito. Infatti, le disposizioni anticipate di trattamento permettono l’interruzione delle cure e il distacco dei supporti vitali, mentre la pronuncia sul ‘caso Fabo’ accoglie l’idea che sia legittimo un intervento commissivo, che provochi direttamente il decesso di chi ha manifestato il proposito suicidario.

Certo, le condizioni perché l’aiuto al suicidio sia ammissibile sono particolarmente rigide, almeno sulla carta: l’aspirante suicida (così è definito in sentenza) deve essere affetto da una patologia irreversibile; la malattia deve essere fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili; il paziente deve essere mantenuto in vita da trattamenti di supporto vitale; deve mantenersi integra la capacità d’intendere e volere dell’aspirante suicida.

In primo luogo, è evidente l’oggettiva flessibilità dei criteri posti dalla Corte Costituzionale, tale da vanificare lo sforzo per frenare spinte eutanasiche a cui siamo stati abituati dai nostri ‘vicini di casa’ francesi, inglesi, olandesi. Tutto dipende dalla percezione soggettiva del malato, che sicuramente libera non sarà, visto che il nostro Stato non eccelle nel fornire adeguata assistenza e valide cure palliative.

Di fronte al dolore fisico, ma ancor di più all’inesorabile scorrere dei giorni, con la sola assistenza dei congiunti, che si disperano per offrire dignità, chi non preferirebbe la morte? Emozionalmente, la scelta sarebbe tracciata a monte: nessuno vuol sentirsi fardello per gli altri. Pertanto, la libertà della scelta del suicidio non è libera, ma direttamente o indirettamente coartata da una società che vede nella sofferenza la sconfitta, nell’assistenza ai malati terminali un inutile dispendio di energie, nel paziente un peso di cui liberarsi il prima possibile.

Se la giurisprudenza costituzionale arriva a utilizzare lo stesso principio personalista, di cui furono precursori i padri costituenti di area cattolica, come grimaldello per introdurre un gretto individualismo e far trionfare la cultura dello scarto, il monito di papa Francesco e il riferimento al giudice e martire Livatino, che già nel 1986 intuiva i rischi dell’affievolimento del principio di indisponibilità della vita umana, sono la guida per ogni giurista che si professi cattolico, ma ancor prima che abbia a cuore la dignità dell’uomo. Solo così la vita non sarà sacrificata sull’altare dell’efficientismo, ma sarà posta sempre ‘sub tutela Dei’, come amava vergare i propri appunti, in un profetico atto di fede, Rosario Livatino.

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