San Carlo il ‘nuovo’ sant’Ambrogio

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Milano ha celebrato san Carlo Borromeo, definito il ‘nuovo Ambrogio’: così gli amici e i più stretti collaboratori di san Carlo lo denominavano negli anni del suo episcopato, e così lo chiamerà papa Gregorio XIII e l’intero popolo ambrosiano dopo la sua morte, nel 1584, di fatto acclamandolo a gran voce quale compatrono accanto a sant’Ambrogio.

Carlo Borromeo che volle essere ordinato vescovo proprio il 7 dicembre, giorno dell’ordinazione episcopale di Ambrogio. Che nella sua stanza teneva un ritratto dell’amato e antico vescovo, perché guardandolo gli fosse di conforto e d’aiuto. Carlo Borromeo del santo ambrosiano imitò l’astinenza e la continenza, il sostegno ai poveri e la difesa dei deboli.

Infondendo nella sua pastorale, come il vescovo del IV secolo, la centralità della figura di Cristo, la devozione per la Vergine Maria, il culto dei martiri, come ha sottolineato mons. Mario Delpini: “San Carlo Borromeo ha consumato la sua vita, le sue energie, le sue risorse per edificare il segno della Chiesa unita intorno al suo pastore. E’ istruttivo ripensare all’opera di Carlo Borromeo per l’unità della Chiesa del suo tempo.

Certo hanno contribuito l’autorevolezza che Carlo si è guadagnato con la sua infaticabile dedizione, con la sua vita di penitenza e di preghiera, la sua generosità nel soccorrere i poveri, la sua vigilanza per difendere le prerogative della Chiesa cattolica rispetto al potere civile dell’autorità spagnola, il suo contrastare in tutti i modi l’infiltrazione della riforma luterana…

La nostra missione non è una pressione da esercitare per spingere la gente in una direzione, ma una attrattiva da mostrare per motivare la corsa verso la meta”.

Quindi Milano con la festività di san Carlo ha concluso le celebrazioni dedicate agli innumerevoli Santi rappresentati nel duomo milanese, come ha sottolineato nell’omelia della festa di Ognissanti, mons. Mario Delpini: “Non esiste, forse nel mondo intero, una chiesa più adatta del nostro Duomo per celebrare questa Solennità, perché il numero delle statue che ricordano santi e beati, circa 3400, è impressionate. E noi qui ci sentiamo, quasi fisicamente, presenti nella comunione dei Santi.

Questa festa non è qualcosa di cui vantarci, ma è la responsabilità di diventare anche noi santi secondo il modello che ci è stato proposto, divenendo segno che il Regno di Dio è dentro la storia umana e compiendolo anche con il nostro impegno a seguire il Signore”.

Sintesi di un modo di concepire la santità che trova la sua radice nella testimonianza quotidiana di cristiani chiamati “ad ascoltare il cantico dell’immensa moltitudine segnata con il sigillo del Dio vivente”.

L’arcivescovo ha contrapposto le parole delle beatitudini alle parole di vuoto odierne: “Ma può succedere che, a un certo punto, ci si accorga che alcune parole mancano e che i discorsi si inceppino, non comunicando niente, non riuscendo neppure a far capire se stessi e a dare un nome alle proprie esperienze e ai propri sentimenti. Il vocabolario troppo povero ci rende tutti più poveri”.

Ed ha posto alcune domande: “Per esempio, come si chiama l’inquietudine che lascia sempre insoddisfatti, la sete di un oltre e di un altrove che si avverte come una nostalgia? Come si chiama quell’intuizione che si potrebbe vedere oltre la banalità e l’artificioso spettacolo che eccita e seduce e che, poi, delude, lasciando solo una vergogna?”

Concludendo l’omelia ha sottolineato che ognuno è per la santità: “Questa festa che celebriamo è l’occasione per recuperare parole censurate, messe forse tra i rifiuti per l’imbarazzo di sentirci antiquati. E celebrando l’immensa moltitudine di coloro che sono stati segnati con il sigillo del Dio vivente ne ascoltiamo il cantico dove sono custodite le parole essenziali. I santi sono uomini e donne che si fanno parola di Vangelo in carne ed ossa e ci ripetono l’antico messaggio: sei fatto per la santità”.

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