Scatti di Umanità: i confini attraverso la fotografia di Francesco Malavolta

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Si intitola ‘Scatti di Umanità – Storie di ordinaria disperazione colte con l’obiettivo di Francesco Malavolta’ la mostra organizzata dalla Società di San Vincenzo De Paoli, che raccoglie alcune fotografie più significative dell’unico fotogiornalista autorizzato a salire sulle navi di Frontex attraverso un tour che sta percorrendo l’Italia fino a dicembre.

Quindi l’attenzione agli ultimi, l’aiuto portato a chiunque ne abbia bisogno; questi sono i pilastri della Società di San Vincenzo De Paoli, che da quasi 200 anni accompagna chi vive in difficoltà, indipendentemente da religione, provenienza, sesso, cultura e opinioni politiche, in un percorso di crescita personale finalizzato alla rimozione delle cause di povertà, non solo economica, come ha spiegato il presidente nazionale della San Vincenzo, Antonio Gianfico:

“La mostra vuole sensibilizzare al tema dell’accoglienza e inclusione dello straniero con azioni di prossimità, per il bene comune e la pace, denunciando pregiudizi e false verità all’origine del clima avvelenato che stiamo vivendo… La presenza di migranti, la loro diversità vanno viste come una ricchezza e non come un problema.

Certamente s’impone una gestione oculata dei flussi migratori a livello comunitario e nazionale, ma è anche necessario rivedere le politiche degli aiuti ai paesi poveri e dilaniati dai conflitti, ancora oggetto di interessi predatori da parte di grandi potenze economiche. Non dimentichiamo che anche l’Italia ha vissuto una grande fase di emigrazioni, con sofferenze e spesso discriminazione; storie troppo presto dimenticate, ma che dovrebbero favorire una maggiore sensibilità e processi d’integrazione”.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista impegnato nella documentazione dei flussi migratori che interessano il continente europeo. Un lavoro che lo ha portato a viaggiare sulle navi della missione ‘Frontex’ e di alcune Ong dallo Stretto di Gibilterra al Mar Mediterraneo, a Lampedusa, dalla Grecia alla Turchia fino alla ‘rotta balcanica’.

Negli scatti di Malavolta si trova un’umanità dolente che continua a lottare senza soccombere alle ingiuste umiliazioni cui viene esposta, un’umanità caparbia che un passo alla volta guadagna centimetri di libertà: “La mostra è nata per raccontare chi soffre”.

Perchè i suoi lavori si concentrano sui ‘confini’?
“Sono oltre due decenni che i miei lavori si sono concentrati sui confini. I confini sono luoghi maledetti, romantici e tragici stesso tempo. I confini sono luoghi dove sempre più spesso si alzano muri sempre più alti negli ultimi anni non solo fisici ma soprattutto mentali. Io ho scelto di concentrarmi su quei confini per raccontare coloro che cercano di superarli per cercare una vita migliore. In una realtà utopica mi piace pensare al mondo senza quei muri dove le persone sono libere di muoversi senza rischiare di morire”.

Una delle priorità è quella di dare un volto al fenomeno della migrazione; con quale approccio?
“Bisogna restituire la dignità e l’umanità ai soggetti che si fotografano, per allontanarsi dal semplice conteggio di vittime e superstiti, distruggendo anche alcuni stereotipi. Esistono assolutamente i casi di persone che sono tristi per i familiari che hanno lasciato nei loro paesi d’origine, ma ho assistito anche a pianti di gioia: ho fotografato anche la felicità di essere arrivati in Europa, di aver raggiunto quello che per alcuni è stato un traguardo dopo un viaggio di mesi, se non addirittura di anni.

In questo senso, una foto emblematica è quella che ho realizzato sette anni fa, in uno sbarco a Lampedusa, dove un ragazzo su un barcone aveva un vestito da uomo, in giacca e cravatta. Partito dalla Libia con due lauree e quattro lingue voleva lanciare un messaggio forte e chiaro, ovvero che esiste molto di più dietro un abito e il colore della pelle.

Siamo immersi in una realtà che ci ha riempito d’immagini sempre uguali mentre io cerco di rappresentare anche altro. Questa foto ad esempio non è stata pubblicata inizialmente in Italia ma solo anni dopo in uno speciale sulla dignità dell’immigrazione. Non sempre le immagini che vengono veicolate rappresentano tutta la realtà. Ci sono delle logiche editoriali: l’uomo che annega con la mano alzata fa sempre più notizia. Penso però che la gente sia stanca di questo tipo di foto. C’è bisogno di un approccio diverso”.

Allora, in quale modo racconta con la fotografia le storie dei migranti?
“Raccontare attraverso la fotografia non è semplice. Una foto è una sintesi di una storia. Quindi devi racchiudere una storia in pochi scatti: è una grande responsabilità etica e morale. Cerco di essere attraverso la foto un testimone. Ogni scatto, un racconto. Ogni racconto, una storia.

Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della Vita ritratta sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come ‘fenomeni idraulici’ e anonimi. Le foto testimoniano inoltre la tenace determinazione di questi viaggiatori per necessità che abbandonano la propria vita e il proprio paese nella speranza di salvarsi e costruire una vita più degna. Negli scatti troviamo quindi un’umanità dolente che continua a lottare senza soccombere alle ingiuste umiliazioni cui viene esposta, una umanità caparbia che un passo alla volta guadagna centimetri di libertà”.

Quindi vale la pena raccontare queste storie?
“Vale sempre la pena raccontare la vita”.

Nell’epoca dei social network quale importanza riveste la fotografia?
“Importante e nello stesso tempo pericoloso. La fotografia è importante perché si ha la possibilità di avere una finestra aperta sull’intero mondo. Pericoloso perché spesso la fotografia è usata in maniera impropria, falsando il suo senso e strumentalizzandolo in maniera negativa”.

(Foto di Francesco Malavolta)

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