A Torino voci di integrazione ed emigrazione

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“L’Italia ha da sempre avuto la tendenza ad essere distratta rispetto al tema dell’emigrazione dei suoi cittadini all’estero. Oggi che il fenomeno ha un andamento crescente, con numeri significativi, si continua a evitare di parlarne”: così si è espresso Sergio Durando, direttore dell’Ufficio Migrantes della diocesi di Torino durante la presentazione della XIII edizione del ‘Rapporto Italiani nel Mondo’ della Fondazione Migrantes.

Nell’introdurre il dibattito ha sottolineato la visione di un ‘Paese distorto’: “Sulle agende politiche ai primi posti troviamo il racconto distorto di un Paese che può permettersi di chiudere le frontiere alle migrazioni, celando che ogni anno dall’Italia emigrano all’estero più 100.000 cittadini italiani che saranno per qualche altro stato motivo di ansia e di intolleranza, perché stranieri.

I dati raccontano di un’Italia al passo con i tempi, di giovani che non si accontentano della precarietà e delle umiliazioni di un sistema economico e sociale che ha perso le coordinate. Dal 2006 al 2018 la mobilità italiana è aumentata del 64,7% passando, in valore assoluto, da poco più di 3.100.000 di iscritti all’AIRE a più di 5.100.000. Il linguaggio violento e di odio che emerge oggi nei confronti del migrante è in assoluto inaccettabile. Se poi si raffronta alla realtà dei fatti, diventa persino ridicolo”.

Durante l’incontro c’è stata la testimonianza via Skype di due testimoni. Il primo è stato Marco, un uomo che è stato in giovinezza un frequentatore assiduo dei gruppi Asai, l’Associazione di Animazione Interculturale nata nei primi anni Novanta nel quartiere San Salvario di Torino. Lì è cresciuto in anni in cui la città si confrontava con le prime ondate migratorie extra europee e la sua giovinezza è stata segnata dal racconto del ‘viaggio’ da parte dei coetanei che frequentavano l’associazione.

Marco ha maturato di essere cittadino di un mondo che non ha confini e lasciare la sua città e il suo paese è diventata una tra le scelte di vita possibili. Oggi vive in Svezia, con la moglie peruviana e una bambina. Poi è intervenuto anche il missionario di Migrantes a Barcellona, don Luigi Usubelli, che ha raccontato chi sono gli italiani che vivono nella città catalana e che cosa fanno.

Secondo gli ultimi dati forniti dal Consolato italiano a Barcellona, il numero degli italiani è in aumento: dal 31 maggio ai primi giorni di dicembre del 2018 sono state eseguite 4.081 nuove iscrizioni Aire, 680 al mese. Poi Delfina Licata, ricercatrice della Fondazione Migrantes ha presentato i dati emersi dall’ultimo Rapporto, volgendo l’attenzione alla situazione della regione Piemonte, ottava in Italia per numero di iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), dopo Sicilia, Campania, Lombardia, Lazio, Veneto, Calabria, Puglia.

I piemontesi residenti all’estero nel 2017 erano 281.131, il 5,6% del totale degli italiani all’estero. La percentuale dei nuovi iscritti nel 2017 sale a 6,9%: su un totale di 128.193 iscrizioni del 2017, 8.798 riguardano il Piemonte, sesta regione italiana dopo Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Sicilia e Puglia per numero di espatri.

E per quanto riguarda la situazione delle palazzine Ex Moi (54 persone su 134 hanno trovato altra allocazione grazie alla Chiesa torinese), che erano state al centro dell’attenzione della politica torinese per l’occupazione, l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, ha ringraziato gli enti coinvolti per una soluzione condivisa:

“L’impegno di tutti è stato un fattore decisivo per avviare il progetto e lo sarà ancora per portarlo a compimento, collaborando sempre insieme e d’accordo. E’ un ‘esempio di stile’ importante: quando ci sono la volontà e l’impegno di affrontare i problemi sociali, secondo il metodo dell’Agorà, si riesce a moltiplicare le forze e le risorse sia economiche che di personale e di organizzazione; ma soprattutto si riesce a farlo con un’attenzione particolare alle singole persone o famiglie, secondo un percorso che rispetta e promuove la loro dignità, valorizza le rispettive attitudini e competenze, per un inserimento graduale ma concreto nel tessuto cittadino e nel nostro Paese.

Diamo atto alla stragrande maggioranza delle persone immigrate che abitavano il Moi per la disponibilità dimostrata ad accettare un percorso, che esige il loro responsabile coinvolgimento per raggiungere quell’autonomia che è l’obiettivo del progetto stesso. Le tappe stabilite di questo percorso avviato e che si snoderà anche nei prossimi mesi rispondono all’insegnamento di papa Francesco che nel messaggio per la Giornata dell’immigrato indicava alcuni passi da compiere”.

Però la soluzione abitativa non è sufficiente a garantire una vita ‘dignitosa’: “Ma l’accoglienza anche abitativa non basta a garantire una vita serena e dignitosa. Occorre procedere poi con l’accompagnamento, l’integrazione e la condivisione. Accompagnamento vuole dire sostenere il progressivo inserimento nella nostra società mediante alcuni impegni, quali la conoscenza della lingua, della legislazione e della cultura del nostro Paese, l’inserimento lavorativo dopo l’eventuale orientamento e la formazione professionale.

L’integrazione non è assimilazione che induce a sopprimere o a sottovalutare l’identità culturale, religiosa e sociale di ogni persona che proviene da un Paesi diverso: essa comporta scelte e passi concreti, come quello del permesso di soggiorno,il superamento di ogni ghettizzazione delle persone e il riconoscimento dei loro diritti di giustizia, la valorizzazione delle specifiche competenze e concrete potenzialità di cui ciascuno è portatore, la possibilità di contribuire attivamente alla vita sociale e al bene comune della cittadinanza.

Infine, la condivisione, che considera ogni persona non solo destinataria di sussidi assistenzialistici, ma è volta a mettere ciascuno in grado di dare e non solo di ricevere”.

Infine ha sottolineato che questo percorso di integrazione riguarda anche gli italiani, che hanno perso il lavoro e la casa: “Mi auguro che questo risultato possa ottenere un ‘effetto volàno’, che diventi un modello di riferimento per tante altre situazioni simili al Moi che riguardano soggetti anche diversi, ma ugualmente bisognosi di sostegno e promozione umana e sociale.

Non penso dunque solo agli immigrati e rifugiati, ma anche a quell’ampia schiera di poveri italiani e non, che frequentano i centri di ascolto Caritas o le molteplici realtà che si investono dei loro problemi o i Servizi sociali; a tanti giovani che non trovano un lavoro; a chi subisce uno sfratto incolpevole; ai Rom; a chi vive sulla strada; a tanti minori non accompagnati; a chi stenta di procurarsi il cibo o le medicine e visite specialistiche;a chi è solo e abbandonato a se stesso”.

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