MAI +: a Zurigo la mostra sul terremoto in Centro Italia

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Fino al 16 dicembre 2018 al Photobastei di Zurigo è esposta la mostra fotografica di Claudio Colotti dal titolo ‘MAI+, il sisma del centro Italia tra volti e macerie’. La mostra è stata organizzata dalle Associazioni Orizzonti della Marca e Marche Best Way, grazie al supporto dell’Istituto Italiano di Cultura di Zurigo, dell’Università di Camerino e del Photobastei.

Le organizzatrici, Antonella Chiucchiuini e Alejandra Gonzalez, hanno raccontato alla Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera l’idea dell’iniziativa: “Con questa mostra vorremmo attrarre l’attenzione sulla situazione attuale delle zone colpite dal terremoto del 2016, offrendo ai visitatori l’opportunità di effettuare un viaggio attraverso le belle fotografie in bianco e nero di Claudio Colotti, scattate durante due mesi immediatamente successivi al sisma del 2016.

Le immagini ci raccontano come le persone hanno affrontato l’emergenza immediata del terremoto, le cui conseguenze resteranno per almeno i prossimi venti o trent’anni. Le fotografie possono essere considerate un simbolo di tutte quelle popolazioni che, loro malgrado, sono state costrette ad abbandonare tutto e a ricominciare da capo, dovendo ritrovare la forza necessaria per reagire e non lasciarsi sopraffare dalla disperazione”.

La mostra è il compendio di un viaggio fotografico di due mesi e mezzo tra Marche, Umbria e Abruzzo, a contatto con gli sfollati nei centri di accoglienza e nei campeggi, con gli allevatori senza più le stalle dove ricoverare il bestiame, ma anche con quelle persone che eroicamente non hanno voluto abbandonare i loro territori, decidendo di sfidare l’inverno nelle roulotte e nei camper. Una mostra che aiuta a non dimenticare un terremoto che ha provocato 299 morti e ha coinvolto, tra Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio, più di 600.000 persone, di cui oltre 49.000 sono senza casa.

Ed allora ci siamo fatti spiegare dal fotoreporter Claudio Colotti le motivazioni della mostra su questo terremoto: “Con questa mostra abbiamo l’obiettivo di tenere acceso un faro sul sisma che ha scosso il centro Italia nel 2016. Pur essendo trascorsi due anni i problemi che le popolazioni terremotate sono costrette ad affrontare permangono drammaticamente. Sembra un paradosso ma la fase post emergenziale è altrettanto insidiosa rispetto all’emergenza stessa.

Basti pensare che le Soluzioni Abitative d’Emergenza, le cosiddette casette di legno costruite colpevolmente con enormi ritardi, hanno già subito un deterioramento tale da costringere diverse famiglie ad abbandonare il territorio o trovare di nuovo riparo all’interno delle roulotte. Su queste latitudini le persone stanno già facendo i conti con freddo, gelo e neve.

Il rischio concreto è che l’intero Appennino si spopoli completamente, spazzando via quel poco di economia rimasta assieme alla voglia dei cittadini di rimanere nel territorio di origine. Le percentuali sono abbastanza chiare, già una buona fetta della popolazione terremotata si è trasferita definitivamente sulla costa nell’impossibilità di vedere un futuro sulla montagna. Assieme alla mostra c’è un fotolibro ‘MAI+’ che ha già venduto quasi 1.000 copie e i cui ricavi sono andati direttamente alle associazioni che si occupano di ricostruire il tessuto sociale di quei luoghi”.

Come è nata l’esigenza di raccontare il terremoto con le immagini?
“Il bisogno di raccontare il sisma attraverso il linguaggio del fotogiornalismo è nato dalla volontà di restituire immagine e voce alla popolazione terremotata. Purtroppo i media main stream si sono concentrati soprattutto nel raccontare i danni materiali provocati dal sisma senza approfondire le conseguenze sociali e psicologiche subite dalle persone.

Questa superficialità narrativa già nel breve periodo ha generato distanza e disinteresse nell’opinione pubblica gettando i terremotati in uno stato di sconforto e abbandono. Un terremoto che non viene affrontato tempestivamente produce solitudine, apatia e disperazione. Con questo photo reportage ho cercato di indagare le fratture sociali e psicologiche cui ancora adesso la popolazione sta facendo i conti.

E’ bene sottolineare che il consumo di psicofarmaci sull’Appennino è aumentato incredibilmente. Io venivo da 10 anni di giornalismo e da una grande sfiducia nei confronti della scrittura come strumento di narrazione della realtà. La fotografia intesa come prelievo del reale mi ha consentito di spiegare il mondo col mondo, senza iperboli e drammatizzazioni”.

Perchè preferisce fotografare in ‘bianco e nero’?
“Il bianco e nero è il linguaggio che mi consente di andare nel cuore della notizia fotografica. L’espediente con cui portare la testimonianza fotografica alla sua essenzialità. Nella scrittura giornalistica bisogna essere asciutti e diretti, gli aggettivi sono banditi.

Ecco, il bianco e nero mi consente di togliere tutti gli aggettivi dalla fotografia per restituire una testimonianza sintetica e senza fronzoli interpretativi della realtà che mi si para davanti agli occhi. Il colore parla all’emotività del fruitore, il bianco e nero si rivolge maggiormente alla regione dell’intelletto.

Il colore è il linguaggio di quasi tutta la fotografia pubblicitaria, col bianco e nero cerco di marcare una distanza da questa per inserire chiaramente i miei scatti nell’alveo della fotografia di documentazione. Insomma, è il mio modo di dire al fruitore che io non mi occupo di promozione o pubblicità ma d’informazione”.

Allora in cosa consiste la ‘fotografia sociale’?
“Per me fare fotografia sociale significa conoscere le persone, entrare in punta di piedi nelle loro vite, farsi figura d’accoglienza in modo da restituirne una testimonianza fotografica il più possibile completa, intima ed esaustiva. Con le dovute proporzioni chi fa fotografia d’impegno sociale si prende cura delle persone con cui entra in contatto. Ci stabilisce un rapporto che può essere anche fugace ma mai superficiale o peggio ancora cinico.

Solo così la fotografia si libera dei suoi connotati puramente estetici caricandosi di valori etici e diventando quindi portatrice di senso. La fotografia sociale raggiunge il suo obiettivo nel momento in cui riesce ad essere così intima e profonda nel raccontare una vicenda di fragilità da mettere il fruitore di fronte ad uno specchio e fargli dire: ‘il protagonista di queste fotografie apparentemente così distante dalla mia vita potrei essere io stesso’.

E’ così che la fotografia contribuisce a ridimensionare dalla nostra grammatica l’Io a favore del Noi. A farci sentire esseri umani responsabili che condividono il medesimo destino”.

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