Rosario Livatino, martire di giustizia e misericordia

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Può un giudice diventare esempio dell’opera di misericordia spirituale “Perdonare le offese”? Il giudice è considerato colui che deve ristabilire il diritto, laddove vi è stata una violazione delle norme di convivenza. Il perdono non rientra nella professione del magistrato, anzi… Questa costruzione ‘classica’ è messa in crisi dalla figura di un testimone, Rosario Livatino, brutalmente ucciso dalla mafia nel 1990, a soli 36 anni.

E’ grazie alla vita di questo servitore della giustizia che san Giovanni Paolo II, dalla Valle dei Templi, ha lanciato quell’anatema contro i mafiosi ed è ancora grazie a lui che il suo assassino, Domenico Pace, ha iniziato un cammino di conversione, vivendo la giusta condanna come un momento per riflettere e riparare il male compiuto.

Lo scorso 3 ottobre, la diocesi di Agrigento ha compiuto un passo fondamentale nel cammino verso la beatificazione di Rosario Livatino, cioè la chiusura della fase diocesana de processo. Nella sessione pubblica, presieduta dal card. Montenegro, con la partecipazione del postulatore, è stato ricordato il complesso iter per ricostruire la figura di questo giudice riservato, che non parlava di sé, ma compiva il proprio dovere nel segreto.

La sua riservatezza, la sua mitezza, coniugate con il senso della fede e della missione di servitore dello Stato, hanno fatto di lui un uomo solo. Solitudine che ancora oggi denota coloro che fanno il proprio dovere senza aspirare alla gratificazione, al riconoscimento, consapevoli che già praticare la giustizia è la ricompensa più grande.

La giustizia, infatti, a differenza del giustizialismo, non gode della condanna inflitta, ma si compiace quando raggiunge l’obiettivo della legalità. Condannava la colpa, non il peccatore: non voleva che la colpa di uno si diffondesse a macchia d’olio sugli altri.

Non solo: nella sua umanità, rispettava anche il nemico. Quando un boss mafioso venne ucciso durante una sparatoria, davanti alla reazione di contentezza di un ufficiale di polizia, il giudice Livatino giunse a richiamarlo all’ordine con una frase lapidaria: ‘Di fronte alla morte chi ha fede prega, chi non ce l’ha resta in silenzio’.

Le sue ultime parole, prima di morire, sono il più alto esempio di misericordia: non ha maledetto o condannato gli assassini, ha chiesto: ‘Cosa vi ho fatto, picciotti?’ La sua giustizia comprendeva anche i delinquenti, perché aveva come obiettivo il loro riscatto dal vortice di male in cui erano immersi.

In un intervento tenuto il 30 aprile 1986 dalle suore vocazioniste di Canicattì, smentiva il presunto antagonismo tra carità e giustizia, richiamando il compito difficilissimo della decisione, che per il magistrato credente diventa ‘realizzazione di sé, preghiera e dedizione a Dio, in un rapporto diretto con Lui’, nella cancellazione di ogni vanità e superbia personale.

Commentando il passo evangelico in cui Cristo afferma la sua missione di compimento dell’antica Legge mosaica, sosteneva che la giustizia è necessaria alla società, ma non basta; l’uomo non può vivere in funzione della legge, ma, nella carità, renderà la legge uno strumento di pace.

Anzi, sempre nello stesso intervento affermava che “il diritto biblico si presenta come un sistema rigorosamente etico, tendente non solo, e forse addirittura non tanto, a realizzare un ordine, formale o sostanziale che sia, nella comunità politica terrena, bensì a consentire ed agevolare la perfezione morale dei singoli, considerati come membri della comunità, ma soprattutto come persone e come figli del Padre trascendente:

il concetto, in altri termini, del diritto e, tutto considerato, dello stesso Stato, come strumenti della fondazione della ‘civitas Dei’ e, in via immediata, della salvezza di ogni singolo uomo” (R. Livatino, Fede e Diritto).

Ora, gli atti del processo – un dossier di circa 4000 pagine (tra cui la testimonianza di uno dei killer coinvolti nel suo assassinio, Gaetano Puzzangaro, anch’egli nella schiera dei ‘pentiti’) – saranno trasmessi a Roma, perché la Congregazione per le Cause dei Santi si esprima sulla Positio, fino al riconoscimento papale della venerabilità o, se si conferma che i mafiosi hanno agito in odio alla fede, del martirio.

Se fosse riconosciuto il martirio, non sarebbe richiesto il miracolo, per cui presto, con grande gioia di tutta la Sicilia, si potrebbe presto acclamare Rosario Livatino ‘Beato’.

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