Mons. Barbareschi: vale la pena vivere per la libertà

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Giovedì 4 ottobre a Milano è deceduto mons. Giovanni Barbareschi, protagonista dell’antifascismo cattolico e tra i preti ‘ribelli per amore’, ‘Giusto tra le nazioni’ e Medaglia d’argento della Resistenza.

Durante il rito funebre celebrato da mons. Franco Agnesi, vicario generale e vescovo ausiliare della diocesi di Milano, è stata letta la sua ultima lettera:

“Tutte le volte che ho accettato faticosamente che un volto umano della croce mi fosse maestro, mi sono ritrovato un poco più buono, più uomo, più vicino al mio Dio. Ed ho capito che ogni sofferenza, ogni croce, è l’unica strada che conduce a Dio, perché è l’unica strada che permette all’uomo di vivere la sua libertà come atto d’amore. Torno alla casa del Padre felice ed entusiasta di questa meravigliosa avventura che è stata la mia vita”.

L’omelia è stata pronunciata da don Giuseppe Grampa, da anni legato da intensa amicizia a mons. Barbareschi: “Negli anni della follia nazista, anni che il tuo amico padre David Maria Turoldo ha chiamato ‘i giorni del rischio, quando tu salutavi a sera senza esser certo mai di rivedere l’amico al mattino’, in quei giorni, in carcere Bonhoeffer scriveva: ‘Solo chi grida per gli Ebrei può cantare il gregoriano’.

Tu, don Giovanni, hai gridato per gli Ebrei e per tutte le vittime, i perseguitati, gli uomini e le donne offesi nella loro dignità, hai gridato con la tua vita, con le scelte rischiose che ti portarono in carcere giovane prete fresco di prima messa, con le labbra serrate nonostante le torture per non tradire i compagni. Tu hai gridato e adesso a piena voce puoi cantare il gregoriano insieme ai tuoi grandi amici. Uomini e donne come te affamati e assetati di libertà e giustizia, uomini e donne dalla schiena diritta, diritta come la tua”.

Era nato a Milano l’11 febbraio 1922 e prima di essere ordinato sacerdote, assieme a Teresio Olivelli, Carlo Bianchi, David Maria Turoldo, Mario Apollonio e Dino Del Bo, partecipò agli incontri che portarono alla fondazione de ‘Il Ribelle’, giornale che ‘esce quando può’ (26 numeri in totale), malgrado gli enormi rischi sia per stamparlo, sia per distribuirlo:

“Lo stampavamo e poi diffondevamo attraverso le famose reti a sacco che le donne portavano allora. Volevamo ribellarci al fascismo e poi alla Repubblica di Salò e tutto quello che ci poteva servire lo abbiamo fatto”. L’8 settembre 1943 decide di appoggiare la Resistenza, insieme a don Carlo Gnocchi. Entra nelle ‘Aquile randagie’, il movimento scout milanese clandestino.

Collabora attivamente all’opera di Oscar (Organizzazione soccorso collocamento assistenza ricercati) preparando i documenti falsi e portando in salvo in Svizzera molti ricercati (ebrei, renitenti alla leva, evasi dai campi di prigionia, intellettuali e politici antifascisti). Dai ricordi dei protagonisti di quei giorni sull’attività dell’Oscar a Milano risulta che furono oltre 1.500 i perseguitati posti in salvo Oltralpe. Almeno altri 200 furono i ricercati sottratti da questa rete clandestina all’arresto, senza contare la realizzazione di migliaia di documenti falsi, fondamentali per la salvezza di quanti erano braccati dai nazifascisti.

Il 10 agosto 1944, ancora diacono, fu incaricato dal card. Alfredo Ildefonso Schuster di andare a impartire la benedizione ai partigiani uccisi in piazzale Loreto. Tre giorni dopo (13 agosto) fu ordinato sacerdote e celebrò la sua prima messa il 15 agosto; la notte stessa fu arrestato dalle SS, mentre si stava preparando per accompagnare in Svizzera alcuni ebrei fuggitivi. Restò in prigione fino a quando il cardinale non ne ottenne la liberazione.

Nel 2011 mons. Barbareschi fu insignito dell’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza civica di Milano: “La distinzione fra atei e credenti è una distinzione culturale, la vera distinzione, che trovo nella Bibbia, è quella tra uomo schiavo e uomo libero. Io ho desiderato diventare libero”.

Nel 1986 pubblicò il libro ‘Memoria di sacerdoti ribelli per amore’ (rieditata alcuni mesi fa dal Centro Ambrosiano), che raccoglieva i profili e le testimonianze di quei preti e religiosi della diocesi di Milano che tra il 1943 e il 1945, sotto il regime della Repubblica di Salò e durante l’occupazione tedesca, si impegnarono per salvare quanti erano in situazione di grave pericolo (ebrei, partigiani, perseguitati politici, renitenti alla leva forzata, militari alleati evasi dai campi di prigionia), appoggiando a vario livello la lotta di liberazione e contribuendo fattivamente alla formazione di una nuova coscienza civile e democratica.

Nella prefazione il card. Martini scriveva: “Sono stati preti che hanno educato al senso autentico della libertà.. La loro Resistenza fu anzitutto un’opera di carità, di ospitalità, di fratellanza. Di questi preti il Vescovo, la Diocesi, possono essere fieri, perché sono stati preti, soltanto preti.

Per i loro fratelli si sono sacrificati, hanno rischiato per l’uomo, per il fratello emarginato, sofferente, per l’ebreo, per il forestiero, per l’escluso. Hanno rischiato per il rispetto dei valori, per ‘farsi prossimo’. Lo testimonia anche il fatto che dopo il 25 aprile ’45 non hanno esitato ad aiutare ‘gli altri’, i nuovi ricercati, perseguitati, braccati”.

Nel 2015, ricevendo il premio Lazzati, ha sottolineato il valore della libertà: “Quando compi un atto di libertà scopri la grandezza di essere uomo… La libertà la costruite voi, su voi stessi. Per la libertà vale la pena di vivere, solo per questo. Chiedetevi se siete uomini liberi. Non sdolcinate la parola chiedendovi se siete ‘democratici’”.

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