Da Pistoia una comunità fraterna e missionaria

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A fine luglio la diocesi di Pistoia ha festeggiato il patrono san Giacomo, che, secondo lo storico Michelangelo Salvi, la sua devozione ebbe inizio quando “correndo l’anno 849 vennero i Saraceni in Italia […] il che sentendo i Pistoresi, gran travaglio se ne presero, temendo fortemente di qualche grave danno o crudele invasione alla loro città: […] pensarono anco essi alla protezione del […] Santo ricorrere, e così invocatolo con viva fede, e ricevutolo per loro Protettore con solennissime feste e processioni, una Chiesa in onore e gloria di Lui, nella fortezza del Castellare fabbricarono, e la città loro non meno dal pericolo che dal timore restò liberata”.

Si può identificare la chiesa con quella di san Iacopo in Castellare la cui storia è indiretta testimonianza del primo embrione del culto jacobeo in Pistoia, molto prima dell’arrivo della reliquia da Compostela. Nel 1144, sarà infatti il vescovo Atto ad ottenere una parte del corpo del santo, grazie all’intercessione di Ranieri, un ecclesiastico pistoiese trasferitosi nella città galiziana.

Ed in concomitanza della festa patronale mons. Fausto Tardelli ha offerto gli orientamenti pastorali per il prossimo anno, riprendendo la lettera triennale ‘Sulle ali dello Spirito. Il Padre, i poveri, una comunità fraterna e missionaria’: “Questa lettera pastorale non mette la parola fine al discernimento comunitario avviato.

Al contrario, lo stile e la prassi sinodale devono caratterizzare la diocesi nel suo insieme, come le parrocchie, le associazioni e i movimenti anche in questa fase di recezione degli Orientamenti pastorali triennali. Questi, potremmo definirli un ‘programma aperto’, un testo per un ulteriore lavoro”.

Poi traccia un cammino, esaminando le parole del titolo: “I cristiani del ventunesimo secolo non possono che essere dei contemplativi, dei mistici che vivono alla presenza di Dio pur restando in mezzo agli uomini, anzi assumendosi tutte le responsabilità necessarie per questo nostro mondo, la terra, il cosmo, la società.

Le nostre comunità parrocchiali, se non riescono a introdurre i bambini, i ragazzi, i giovani, le famiglie e le persone in genere a questa contemplazione e adorazione del Dio vivente Padre misericordioso, falliscono il loro compito e si riducono ad essere un’accozzaglia di iniziative e di attività senza capo né coda, coacervo di piccoli e ridicoli poteri e spazi di incomprensione e incomunicabilità.

E così non riusciranno ad attrarre chi è in cerca della vita, chi domanda libertà e amore, quelli che vanno errando chiedendo verità, o chi è orfano della speranza; anzi lo allontaneranno, scandalizzato dal sale che ha perso il sapore e dalla luce che è stata nascosta sotto il moggio”.

La seconda parola esaminata sono i poveri: “Il secondo riferimento nel titolo di questa lettera pastorale sono ‘i poveri’ e di essi voglio ora dire qualcosa, in quanto volto concretissimo di Dio. Nonostante che il mondo vada avanti, i poveri restano, presenza inquietante di Dio. I ‘segni dei tempi’ ci mostrano con chiarezza che c’è tanta povertà in giro che chiede speranza e vita.

Magari prende nuove forme che si vanno semplicemente ad aggiungere a quelle antiche. C’è tanto bisogno di Vangelo intorno a noi! C’è una moltitudine che vaga, dolente e rassegnata, senza più nemmeno la rabbia della disperazione. Ad essa siamo mandati, ma per poter svolgere questa missione bisogna riconoscersi poveri mendicanti. Guai se non riconoscessimo la nostra povertà e pensassimo che poveri sono soltanto gli altri! Guai davvero!

I poveri ci insegnano proprio questo: a riconoscere che siamo noi i primi bisognosi di aiuto. Il loro magistero è qui. Ed è tale magistero che i farisei non volevano accettare. Quanto allora è importante acquisire una mentalità che rompe con i consueti nostri modi di pensare, a volte anche quelli più generosi.

Se il Signore Gesù si riconosce nel volto dei poveri, non è soltanto per muoverci a pietà pensando che è a Lui che facciamo del bene. No. La sua presenza nel povero è sempre quella del Maestro che insegna, chiedendoci di farci discepoli. Egli è presente nel volto degli ultimi per insegnarci dall’alto della sua maestà; perché solo guardando le cose, il mondo, la storia, la nostra stessa vita, da poveri, dalla parte dei poveri, si potrà sperimentare il Dio della misericordia.

Chiesa dei poveri e per i poveri vuol dire esattamente questo: una comunità di fratelli che non si fanno grandi con gli ultimi ma sanno riconoscere la propria piccolezza e confidano solo in Dio. Non nel potere umano, non negli appoggi politici, non sulla forza del denaro, non sul consenso mediatico.

Solo in Dio e nella sua Parola fatta carne. Una comunità allora dove i poveri si sentono a casa, fratelli tra fratelli, dove sono accolti e accolgono a loro volta gli altri e così, insieme, si ritrova la forza di vivere e nel reciproco gesto misericordioso, il volto di un Dio che è padre buono”.

La terza parola che compone la lettera riguarda la comunità ‘fraterna e missionaria’: “La comunità fraterna dei discepoli del Signore non esiste comunque per essere una specie di isola felice, chiusa in se stessa in un amore limitato ai fratelli e sorelle nella fede. Essa è missionaria per sua natura. E’ ‘chiesa in uscita’.

Il suo compito è di andare per le strade del mondo, annunciare a tutti la misericordia di Dio servendo ogni uomo e donna amati dal Signore, senza chiedere niente in cambio; spandendosi sulla terra con coraggio e umiltà, come lievito che fermenta la pasta, sale che dà sapore alle cose e luce che illumina la casa del mondo.

Il compito che il suo Maestro le ha affidato richiede una radicale riforma in senso missionario delle comunità parrocchiali e di tutta la chiesa particolare. Secoli di cristianità residenziale e acquisita hanno strutturato la vita delle nostre comunità sostanzialmente sul passo della conservazione, dell’occupazione dello spazio, della ‘residenzialità’.

Oggi ci è chiesto di recuperare al più presto lo spirito che fu degli apostoli e delle prime generazioni cristiane, quello della missionarietà, quello dell’andare a incontrare e testimoniare, ripartendo da ciò che è l’essenziale, cioè dal primo annuncio, dal kerygma, cioè dalla buona notizia del Regno accompagnato dalla testimonianza della carità”.

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