Truffelli invita l’Azione Cattolica ad essere nel popolo

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L’intervento di Matteo Truffelli, presidente nazionale di Azione Cattolica, ha concluso i lavori del convegno delle presidenze diocesane dell’associazione, svoltasi a Roma fino al 29 aprile, attraversata dalle parole che Francesco ha rivolto all’Azione cattolica nei due appuntamenti dello scorso anno: ‘Dovete popolarizzare di più l’Azione Cattolica’.

Nell’intervento conclusivo il presidente Truffelli ha specificato il ruolo dell’Azione Cattolica per il tempo attuale: “La risposta sta dunque nel nostro essere capaci di mettere sottosopra la mappa del nostro essere Chiesa e ricalcolare il percorso del nostro andare per le vie del mondo”. Quindi l’Azione Cattolica tratteggiata nel fine week end di aprile è un’associazione che cerca di essere aperta al mondo e contemporaneamente al proprio territorio in un contesto missionario:

“Di certo essere Ac popolare non significa fare questo o quello, oppure non fare più questo o non fare più quello. Essere Ac più missionaria non significa ‘fare cose’: significa assumere un atteggiamento, una postura, una tensione costante in tutto ciò che si fa… Più che fare singole iniziative, essere Ac più missionaria significa essere un’Ac protesa ad accorciare le distanze con tutti, con la vita di ciascuno: accorciare la distanza tra l’esperienza associativa e il resto della ‘folla dei discepoli’, di cui facciamo parte”.

E per far comprendere l’impegno dell’Azione Cattolica ai presidenti diocesani ha preso ad esempio i gesti del papa: “Prenderò ad esempio alcuni tra quelli fatti da papa Francesco, poiché i gesti di papa Francesco non sono casuali, sono il modo con cui ci fa vedere quello che a parole ha già scritto nell’Evangelii gaudium, nella Laudato sì, nell’Amoris laetitia, nella Gaudete et exultate”.

Quindi ha elencato sei gesti da cui prendere spunto nella quotidiana azione catechetica. Primo gesto. Papa Francesco che si reca a Santa Maria Maggiore ad ogni rientro dai suoi viaggi per deporre fiori ai piedi di Maria: “L’Ac è innanzitutto popolo di Dio, nella sua diocesi, nella sua parrocchia. Attentanti a d ogni forma di religiosità popolare, senza snobismo o intellettualismo”.

Secondo gesto. Papa Francesco che pranza con i lavoratori a Santa Marta: “La normalità della vita quotidiana che si sviluppa in ogni ambiante va abitata. Come il pastore che odora di pecore, noi di Ac dovremmo odorare di più dei luoghi del mondo”. Terzo gesto. Papa Francesco che nel gennaio 2015 a Manila usa il linguaggio dei non udenti per salutare: “Popolarità significa conoscere e usare il linguaggio di coloro che ci stanno attorno”.

Quarto gesto. Papa Francesco che scende da un’utilitaria: “Un’Ac più popolare è un’Ac che sa dare valore alle cose attraverso la sobrietà, la solidarietà , la trasparenza”. Quinto gesto. Papa Francesco che si commuove ricevendo il libro di preghiere trovato su un barcone di migranti consegnatogli nell’udienza del 27 aprile dello scorso anno: “Un’Ac popolare è un’Ac che sa abitare in profondità la storia, il proprio tempo, le vicende dell’umanità, mettendo dentro le pieghe della realtà il seme dell’amore che è il nome più altro della giustizia”.

Sesto gesto. Papa Francesco che in occasione della sua visita a San Giovanni Rotondo, fuori programma, va a trovare l’anziano vescovo Santucci, che non era potuto andare a incontrarlo: “Un’Ac popolare è un’Ac che sa prendersi cura delle persone. E sa farlo nella modalità del prendersi tempo da donare agli altri”. Durante i tre giorni è stato ribadito, attraverso il tema ‘Un popolo per tutti’, la più che secolare presenza dell’Azione cattolica nella società italiana ed indicato una visione programmatica per il cammino futuro.

In apertura mons. Angelo De Donatis, vicario della diocesi di Roma, ha lanciato un appello “ad un convenire di tutti nella comunione, senza la quale non si costruisce niente. La sfida che chiede il meglio di ciascuno è quella di annunciare ai poveri la buona notizia, unendo tutti nel cammino verso la Terra nuova…

Tutti siamo chiamati a diventare popolo a partire dai poveri da cui sorge il grido dell’umanità ferita…Il popolo di Dio è la carne della Chiesa: se la Chiesa non fosse popolo, non sarebbe una Chiesa di carne e dunque non piacerebbe a chi si è fatto carne”. Don Cesare Pagazzi, docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, si è soffermato sul binomio popolo-carne definendolo “la categoria teologica più importante e trasversale del magistero di papa Francesco.

Una Chiesa senza popolo, è una Chiesa scarnificata. Senza popolo si disincarna il Vangelo e Cristo… Idealizzare una Chiesa di minoranza, come se non fosse per tutti i figli di Adamo, significa mutilare la carne di Cristo, rendendo la Chiesa una cisti un corpo vivente. Oggi il rischio di immaginare una Chiesa come piccolo gregge è trasformare un dato di fatto in ideologia, come se questo fosse l’ideale auspicabile e come se il Vangelo non fosse per tutti”.

Mentre il prof. Luigi Alici, presidente emerito di Ac e docente all’Università degli Studi di Macerata, ha puntato la sua riflessione sulla vita nel popolo perché “una tessitura civile e non solo associativa può svolgere una funzione profetica, soprattutto in un Paese scucito come il nostro. Non possiamo illuderci di contrastare un deficit preoccupante di concordia con una politica agnostica sui fondamenti del bene comune, capace di tenere in vita l’idea di popolo con l’astrattezza della retorica e la concretezza del tornaconto”.

Per il professore occorre stare in guardia da una ‘seduzione populista’ che “nasce sognando una comunità compatta che ha bisogno del mito del nemico come capro espiatorio di tutti i mali, una società chiusa da cui espellere impurità, differenze e conflitti, che non ama la mediazione e la fatica della democrazia, pronta a mettersi ad occhi chiusi nelle mani di un capo carismatico”.

Quindi “occorre ritrovare il cuore del popolo nella trascendenza del bene. Per fare di tanti popoli un solo popolo. Un poliedro, più che una sfera, secondo la felice metafora di papa Francesco”.

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