P. Raniero Cantalamessa: ‘La carità non abbia finzioni’

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Nel secondo venerdì quaresimale, nella Cappella ‘Redemptoris Mater’, alla presenza di papa Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa ha tenuto la predica di Quaresima, incentrandola sulla santità:

“Il Concilio Vaticano II ha dato anche precise indicazioni su che cosa si intende per santità, in che cosa essa consiste. Nella Lumen gentium si legge: ‘Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore…

I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi.

Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto’.Una delle differenze maggiori tra la visione biblica della santità e quella scolastica sta nel fatto che le virtù non vengono fondate tanto sulla ‘retta ragione’ (la recta ratio aristotelica), quanto sul kerygma; essere santo non significa seguire la ragione (spesso comporta il contrario!), ma seguire Cristo”.

Quindi padre Cantalamessa ha sottolineato che la santità cristiana è ben descritta nella lettera di san Paolo ai Romani: “A partire dal capitolo 12 della Lettera ai Romani tutte le principali virtù cristiane, o frutti dello Spirito, sono elencati: il servizio, la carità, l’umiltà, l’obbedienza, la purezza. Non come virtù da coltivare per se stesse, ma come necessarie conseguenze dell’opera di Cristo e del battesimo.

La sezione inizia con una congiunzione che da sola vale un trattato: ‘Vi esorto dunque…’. Quel ‘dunque’ significa che tutto ciò che l’Apostolo dirà da questo momento in poi non è che la conseguenza di quello che ha scritto nei capitoli precedenti sulla fede in Cristo e sull’opera dello Spirito. Rifletteremo su quattro di queste virtù: carità, umiltà, obbedienza e purezza, cominciando dalla prima”.

A proposito della carità: “Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il ‘sentimento’ che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: ‘La carità non abbia finzioni!’. Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto ‘senza finzioni’, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia.

Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano”.

Poi ha esaminato come l’apostolo delle genti inviti ad ‘usare’ carità verso ‘quelli fuori’, commentando il passo di Romani 12,14-21: “Mai, come in questo punto, la morale del Vangelo appare originale e diversa da ogni altro modello etico, e mai la parenesi apostolica appare più fedele e in continuità con quella del Vangelo. Quello che rende tutto ciò particolarmente attuale per noi è la situazione e il contesto in cui questa esortazione viene rivolta ai credenti.

La comunità cristiana di Roma è un corpo estraneo in un organismo che, nella misura in cui si accorge della sua presenza, lo rigetta. E’ una minuscola isola nel mare ostile della società pagana. Sappiamo quanto, simili circostanze, sia forte la tentazione di chiudersi in se stessi, sviluppando il sentimento elitario e arcigno di una minoranza di salvati in un mondo di perduti. Con questo sentimento viveva, in quello stesso momento storico, la comunità essena di Qumran”.

L’altro modo di ‘assolvere’ la carità è all’interno della comunità di Roma, dilaniata da contrapposizioni: “Il conflitto allora in atto nella comunità romana era tra quelli che l’Apostolo chiama ‘i deboli’ e quelli che chiama ‘i forti’, tra i quali pone se stesso. I primi erano coloro che si sentivano moralmente tenuti a osservare alcune prescrizioni ereditate dalla Legge o da precedenti credenze pagane, come il non mangiare carne (in quanto c’era il sospetto che fosse stata immolata agli idoli) e il distinguere un giorno dall’altro.

I secondi, i forti, erano quelli che, in nome della libertà del Vangelo, avevano superato questi tabù e non distinguevano cibo da cibo o giorno da giorno. La conclusione del discorso fa capire che sullo sfondo c’è il solito problema del rapporto tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dai gentili”.

Il terzo criterio sottolineato dal predicatore è quello di evitare di dare scandalo: “Ognuno è invitato a esaminare se stesso per vedere cosa c’è al fondo della propria scelta: se c’è la signoria di Cristo, la sua gloria, il suo interesse, o non invece, più o meno larvatamente, la propria affermazione, il proprio ‘io’ e il proprio potere; se la sua scelta è di natura veramente spirituale ed evangelica, o se non dipende invece dalla propria inclinazione psicologica, o, peggio, dalla propria opzione politica.

Questo vale nell’uno e nell’altro senso, cioè sia per i cosiddetti forti che per i cosiddetti deboli; sia, diremmo noi oggi, per chi sta dalla parte della libertà e novità dello Spirito, sia per chi sta dalla parte della continuità e della tradizione”.

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