Padre Moschetti racconta il Sud Sudan

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“Milioni di persone da tutto il paese sono scappati nelle vicine nazioni come il Sudan, Etiopia, Kenya, Uganda e questa emorragia di paura e di persone non è ancora terminata. Anche nella parte sud del paese, cioè nell’Equatoria, la guerra ha raggiunto queste zone e popolazioni, creando ancora di più una situazione assurda e insostenibile.

E’ assurdo assistere a questa agonia lenta e dolorosa sia per noi che ci siamo per scelta e sia per la gente che vede tutti i loro sogni e speranze del dopo indipendenza scomparire giorno dopo giorno. La paura, il sospetto, la resistenza e soprattutto sopravvivenza ha preso la parte centrale nella vita di tutta la gente nel paese. Nel campo dei rifugiati di Juba dove andiamo con alcuni altri religiosi per celebrare la messa alla domenica ma anche per ascoltare e sostenerli nella loro lotta e sopravvivenza, ci sono migliaia e migliaia di bambini e giovani.

Sono il presente e il futuro di questo paese distrutto e amareggiato e sempre più alla deriva. Ciò che sempre mi colpisce di più quando vado a trovarli è il sorriso che i bambini e la gente in genere condivide gratuitamente con me. Nonostante le grandi sofferenze e difficoltà a vedere davanti a sé un futuro che non c’è, i bambini e la gente hanno ancora speranza e sorrisi da donare a tutti. Che grande mistero è la Vita…..dove c’è più sofferenza c’è anche più grande speranza e disponibilità”.

Così scriveva a fine 2016 il comboniano padre Daniele Moschetti, prima di lasciare l’Africa e tornare per un breve periodo in Italia, in attesa di trasferirsi all’Onu. Nel frattempo ha pubblicato il libro ‘Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità’, introdotto da papa Francesco:

“Ho scritto il libro dopo aver fatto il cammino di Santiago de Compostela; 1.100 km. per la pace in Sud Sudan, e mi chiedevo come far evidenziare questo dramma umanitaria in Italia. Ritornato dal cammino ho cercato di mettere insieme le lettere che avevo scritto nei 7 anni, dal 2005 al 2013, di servizio nel Paese. Nel Sud Sudan una guerra dimenticata sta producendo una immane catastrofe umanitaria, sociale ed economica.

Secondo Amnesty International, nel Sud Sudan è in corso una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi tempi: sono quasi un milione gli sfollati nella regione di Equatoria, mentre continuano impunite le uccisioni di civili e le violenze su donne e bambine. Nessuno, fra i Paesi circostanti, ne è immune. I rifugiati fuggono verso il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Quasi la metà delle persone in fuga è arrivata in Uganda, nelle regioni settentrionali del Paese la situazione ora è critica”.

Il Sud Sudan è una terra ricca di risorse: quali sono le vere cause, insieme al confitto etnico, della guerra ?
“E’ diventato adesso un conflitto etnico nel 2013, perché le truppe paramilitari Dinka uccisero migliaia di persone Nuer nella capitale Giuba. Subito ci fu una guerra tra di loro nell’esercito regolare. Tuttavia non è solo una questione tribale, ma ci sono molte risorse, che vogliono dire soldi e potere. Quindi spartisci le risorse e dietro la parvenza legale del governo ci sono molte multinazionali.

Dal 2005 al 2011 il 9% della terra del Sudan era già stata data a molte multinazionali sovranazionali, è il fenomeno del land grabbing, cioè l’accaparramento delle terre perché erano terreni molto fertili mai utilizzati. Per esempio l’Arabia Saudita, che è un paese deserto, prende tantissima terra dall’Africa per poter coltivare grano sia per i consumi interni sia per vendere sul mercato internazionale. Loro si accaparrano le terre attraverso una dimensione illegale perché c’è la corruzione e tutto il resto. La Petronas, quella che sponsorizza la Mercedes in formula 1, è una multinazionale della Malesia che sta pompando petrolio in Sud Sudan”.

Perché i comboniani hanno ‘scelto’ l’Africa e specificatamente il Sud Sudan?
“Nei giorni scorsi si è celebrata la festa di san Daniele Comboni, il nostro fondatore che ha dato tutta la sua vita per il Sudan con lo slogan ‘Salvare l’Africa con l’Africa’ fin dal 1800. La terra del Sudan per noi è una sorta di ‘Terra Santa’. Dopo l’espulsione del 1964 da parte del governo islamico del nord tutti i cristiani sono stati mandati fuori, anche gli anglicani. Per noi è una lotta continua perché quest’area dell’Africa è sempre stata una terra martoriata, un popolo crocifisso dal 1800 con la schiavitù e il colonialismo dopo e poi la predominanza islamica con 40 anni di guerra e questi 4 anni di guerra civile”.

Come operate nel Paese?
“Diventa sempre più difficile perché abbiamo già perso due missioni, una fra i Nuer e una proprio a gennaio 2017 perché la gente fugge, ci sono circa 2.000.000 di profughi fuori. Inoltre ci sono altri 3.000.000 di persone che sono sfollate all’interno del paese e che hanno perso tutto; circa 300.000 nei campi interni del Sud Sudan.

E’ uno dei paesi più poveri al mondo per quanto ricco di potenzialità, di risorse. Noi cerchiamo di operare per quello che possiamo, stiamo con la gente, siamo fuggiti anche con la gente, così come molti altri religiosi di tante altre congregazioni. Anche diverse Ong sono fuggite dal Paese. La gente crede nelle Chiese perché i ribelli di un tempo sono diventati dittatori e quindi automaticamente credono nella Chiesa, perciò è importante stare con loro, per dare speranza”.

Quale ruolo ha svolto in questi anni la Chiesa?
“La Chiesa, in collaborazione con altre Chiese, ha sempre lavorato per la pace, cercando di dare protezione ai civili. La realtà è che governo e ribelli stanno combattendo per le risorse del sottosuolo. Papa Francesco voleva venire in Sud Sudan lo scorso ottobre, invitato dalle chiese, non solo quella cattolica ma anche le chiese protestanti, anglicane, presbiteriana.

Sarebbe andato con Justin Welby, il primate della chiesa anglicana; una visita storica perché non è mai successo, andavano per la gente, per dare speranza. Le chiese stanno lavorando insieme per la pace perché è l’unica istituzione credibile in questo momento. Noi come religiosi cattolici avevamo aperto un centro per la pace non solo per programmi di pace, ma soprattutto per la guarigione dei traumi, perché si sono viste delle atrocità pazzesche. Migliaia di donne stuprate, bambini bruciati vivi, si è vista una disumanità totale. Continuiamo a fare programmi però se non c’è una stabilità diventa difficile. Vogliamo fare causa comune nei momenti difficili della gente”.

Dal 20 novembre andrà all’Onu per svolgere l’attività di ‘lobbing ed advocacy’: in cosa consiste?
“E’ un lavoro di giustizia, pace e riconciliazione, ma soprattutto è un modo per far conoscere le notizie dal sud del mondo con missionari delle congregazioni che operano in quei Paesi. Il gruppo si chiama ‘Vivat’, che è riconosciuto dall’ONU; quindi possiamo partecipare alle commissioni ed alle assemblee generali e fare ascoltare la voce dei missionari e missionarie religiosi e laici.

Quindi è un movimento per far pressione sulle decisioni prese all’ONU. Poi farò parte della ‘Rete per la fede e la giustizia africana’, che farà pressione a Washington nel Congresso americano. Ma non lascerò l’impegno fin qui svolto e mi occuperò dei latino e degli afro americani, le due fasce di popolazione più emarginate nella società americana”.

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