L’Inps chiede di non chiudere le frontiere

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Nel presentare la relazione annuale il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha affermato che l’Italia non deve chiudere le frontiere: “Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere. Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale… Un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo.

Siamo consapevoli del fatto che l’integrazione degli immigrati che arrivano da noi è un processo che richiede del tempo e comporta dei costi. E’ anche vero che ci sono delle differenze socio-culturali che devono essere affrontate e gestite e che l’immigrazione, quando mal gestita, può portare a competizione con persone a basso reddito nell’accesso a servizi sociali, piuttosto che nel mercato del lavoro… Ma una classe dirigente all’altezza deve avere il coraggio di dire la verità agli italiani: abbiamo bisogno di un numero crescente di immigrati per tenere in piedi il nostro sistema di protezione sociale”.

Ed ha spiegato perché l’Italia ha bisogno della forza-lavoro degli immigrati: “Oggi gli immigrati offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole.

Nella Parte terza del Rapporto documentiamo come gli immigrati che arrivano da noi siano sempre più giovani: la quota degli under 25 che cominciano a contribuire all’Inps è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015. In termini assoluti si tratta di 150.000 contribuenti in più ogni anno. Compensano il calo delle nascite nel nostro Paese, la minaccia più grave alla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, che è attrezzato per reggere ad un aumento della longevità, ma che sarebbe messo in seria difficoltà da ulteriori riduzioni delle coorti in ingresso nei registri dei contribuenti rispetto agli scenari demografici di lungo periodo”.

Il rapporto dell’Inps ha evidenziato il basso tasso di natalità italiana: “L’Italia è da anni negativamente caratterizzata nel confronto internazionale nel presentare un basso tasso di occupazione femminile abbinato a un tasso di natalità tra i meno elevati in Europa. Il numero di figli per donna è pari a 1,34 nel 2016 (1,27 quello delle donne italiane) in calo costante ormai da anni, mentre il tasso di occupazione rimane in media al di sotto del 50%”.

Inoltre il rapporto sottolinea anche il lavoro femminile come punto indispensabile per un armonico sviluppo: “Dal punto di vista della sostenibilità del nostro sistema pensionistico, l’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro italiano è considerata condizione necessaria per spostare strutturalmente in alto il numero di occupati.

Gli effetti positivi sarebbero rafforzati dallo svilupparsi di un secondo effetto a tale aumento collegato rappresentato da una crescita nella fertilità: un incremento delle nascite con il conseguente ringiovanimento della popolazione comporta, infatti, il miglioramento nel lungo periodo del bilancio pensionistico. L’evidenza internazionale suggerisce che esiste una correlazione positiva tra lavoro delle donne e natalità: dove l’occupazione delle donne è più alta, è più elevata anche la natalità perché più donne scelgono di fare un figlio e, soprattutto, di farne più di uno”.

L’altro aspetto in evidenza riguarda la disparità di stipendio tra chi ha figli e chi non ne ha: “Un’analisi di regressione, che stima la perdita reddituale sperimentata dalla donna dopo la nascita del figlio rispetto al trend precedente controllando per effetti fissi individuali, suggerisce che, 24 mesi dopo l’inizio del congedo di maternità, la donna guadagna circa il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto il figlio…

Per quantificare il contributo dell’occupazione femminile alla sostenibilità sono stati simulati gli effetti sulle entrate contributive e sulla spesa per prestazioni che deriverebbero da una riduzione strutturale del numero di lavoratrici. Si è ipotizzato, in particolare, che il rapporto tra lavoratrici e popolazione femminile in età attiva (età 15-64), osservato alla data iniziale, rimanga invariato per l’intero periodo di previsione.

Tale ipotesi, sviluppata nel quadro definito dallo scenario mediano delle previsioni demografiche Istat pubblicate ad aprile del 2017, determina una diminuzione media annua di nuove assunte nel periodo 2018-2040 pari a circa 69 mila unità, che corrisponde ad una riduzione complessiva al 2040 di circa il 10% di lavoratrici rispetto alla popolazione in età attiva”.

L’altro dato interessante riguarda i lavoratori immigrati: “La popolazione dei lavoratori stranieri in Italia è giovane ed è costituita per lo più da individui di età inferiore ai 45 anni. Fino all’anno 2008 più della metà dei lavoratori stranieri impiegati in Italia nel settore privato presenta un’età inferiore a 34 anni. E’ tuttavia interessante sottolineare che la popolazione dei lavoratori con più di 45 anni è più che triplicato nel corso dei 20 anni presi in considerazione, confermando una decisa tendenza all’invecchiamento dei lavoratori stranieri presenti in Italia. Tale invecchiamento non è dovuto all’innalzamento dell’età media dei nuovi entranti”.

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