La comunità di Capodarco ha compiuto 50 anni

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Dalla Sicilia al Veneto: tanti rappresentanti della Comunità di Capodarco in Italia si sono incontrati nello scorso fine settimana a Capodarco, nel fermano, per celebrare 50 anni di cammino condiviso, a fianco delle persone più deboli, fondata nel Natale 1966. Dopo il periodo degli inizi nelle Marche, a partire di primi anni del 1970 ‘si fa sempre più forte il desiderio di ritornare alle proprie terre’; un processo che porta, fino alle soglie degli anni ’90, alla nascita di nuove realtà.

Le Comunità di Sestu (Ca) e di Udine saranno le prime a diventare autonome; seguirà la nascita della Comunità di Roma, di Bergamo, di Lamezia e man mano di tutte le altre. Sono 14 le Comunità in 8 regioni e 3 all’estero (Ecuador, Albania, Camerun): nel 2015 complessivamente hanno accolto 1.226 persone e garantito a 1.100 utenti oltre 30.000 prestazioni riabilitative.

Ad aprire il convegno di riflessioni venerdì 11 novembre è stato il direttore del TG LA7, Enrico Mentana, che ha messo al centro dell’intervento il ruolo della Comunità nella costruzione di un ‘nuovo’ pensiero e di politiche sociali adeguate a bisogni che cambiano, ma anche l’occasione di un confronto su una società in profonda trasformazione:

“Ciò ha reso aridi gli italiani sui temi del quotidiano, della capacità di ascolto, della consapevolezza del disagio. Elementi importanti di un paese che pure non è egoista. In Italia c’è nel fondo uno spirito di comunità positiva. Tutti questi avvenimenti, però, hanno rappresentato come una sorta di bombardamento e ci si è trovati a raccontare ciò che è in prima fila, dimenticando il resto”.

Incalzato dalle domande di don Vinicio Albanesi sulla necessità di far emergere il disagio, Enrico Mentana ha risposto che occorre ‘rompere’ nelle regole: “Si rompe rispettando le regole. Siamo figli di una generazione che se ha fame mangia gli avanzi. Ma le regole ci sono e vanno rispettate. Anche se a volte si ha l’impressione di uno strano accanimento. Allora ci vogliono patti chiari. Voi siete il ‘salvavita Beghelli’ di famiglie che non vogliono vedere.

Ed è anche vero che il nostro Paese vuole fare la Svezia sulla pelle degli altri. E vuole gli hotel per anziani che ci sono negli Stati Uniti, dove però c’è l’etica del distacco. Ma queste cose, ripeto, vanno insegnate nella famiglia e a scuola. Bisogna recuperare la dimensione sociale”.

Ma il momento centrale è stato il ricordo della nascita attraverso il racconto del fondatore don Franco Monterubbianesi, di Marisa Galli, tra le fondatrici di Capodarco, e don Angelo Fanucci, presidente della Comunità di Capodarco dell’Umbria. Marisa Gallo era una disabile ed ha raccontato la sua storia di ‘handicappata’ nell’Italia degli anni ’60: “Sono diventata senza volerlo una specie di simbolo. Ma ho solo creduto a quello don Franco proponeva, grazie a una spinta interiore molto forte.

Ho creduto, insomma, alla proposta di dedicare la mia vita a favore di una categoria. E questo ho fatto, dall’inizio alla fine. Perché questa scelta non può durare un giorno, non è a scadenza. E’ una proposta che si rinnova costantemente. Io avevo ricevuto molto, ho deciso di essere fedele alla scelta, attenta e comprensiva verso quello che succedeva intorno a me. E se qualcosa è cambiato in peggio in questi anni, sappiate che questo succede sulla testa dei più deboli!

Io sono credente e la presenza di Dio l’ho sentita fin dall’inizio, per quella sensibilità che mi ha fatto soffrire ma mi ha fatto anche capire quanto sia importante assumere i problemi degli altri. Sono convinta che noi abbiamo dato l’assenso all’opera di Dio. Nessuno avrebbe immaginato allora che questa realtà prendesse così piede e si ampliasse in questo modo”.

Subito dopo è stato don Franco Monterubbianesi a fare un intervento/appello che parte dalle origini di Capodarco e ‘per prepararci bene ai prossimi 50 anni. Io posso darvi una mano!’: “Io voglio essere con voi in questi ultimi 10 anni che ho chiesto al Signore. Ho chiesto di vivere come promotore del Movimento di Capodarco. Perché tutta la storia grande che abbiamo vissuto è lo stile che dobbiamo far conoscere.

Dobbiamo protestare! Io ci lavorerò. Voglio recuperare chi ha fatto la storia, ma che non sono più tra noi. Riaggregarli al senso del movimento. Nel ’70 fummo definiti la ‘Comune dei risorti’. Se abbiamo avuto tanti giovani obiettori è perché siamo stati noi a chiedere la legge sull’obiezione di coscienza! Parlo da tempo del nuovo ’68, anche se dobbiamo stare attenti con questi riferimenti.

Ma dobbiamo riparlare ai giovani, c’è un gran lavoro da fare sul piano educativo. La chiesa non ha saputo dare lo stimolo profondo, lo stimolo educativo sul quale il Cristianesimo vive. Dobbiamo riaffermare lo spirito del servizio, la realtà di passione con cui Marisa Galli per 38 anni ha resistito. Non è affermare se stessi, ma servire!”.

Infine il sociologo Giambattista Sgritta ha raccontato la storia del welfare in Italia: “Cinquanta anni di storia sono un pezzo importantissimo della vicenda italiana e non solo. Sarebbe sbagliato circoscrivere l’analisi solo alla Comunità che nasce in un paesino delle Marche. Piuttosto, la storia della Comunità di Capodarco si inserisce nel quadro della storia del terzo settore, che è sempre esistito come mutua e reciproca solidarietà in quanto caratteristica costante della società tradizionale, in cui la famiglia contava fino a un certo punto, mentre il cemento erano i legami sociali.

Questa società è entrata in crisi con la nascita della società industriale che ha creato problemi a cui la famiglia e la comunità solidale non sono state più in grado di rispondere. Allora sono nate le prime forme di responsabilità pubblica: lo Stato ha iniziato a intervenire per la protezione e la tutela con l’effetto secondario di buttare fuori la cultura famigliare tradizionale e la solidarietà interpersonale delle reti sociali”.

Secondo il sociologo il Terzo Settore deve diventare una forza trainante: “Lo Stato sociale è cambiato in peggio, quello che avevamo 20 o 30 anni fa si è progressivamente degradato. I mali sono la frammentazione istituzionale, la commistione tra previdenza e assistenza, l’incapacità redistributiva, la mancanza di un reddito minimo non categoriale e non contributivo.

Sono aumentate la povertà assoluta e quella relativa, i giovani sono stati massacrati non solo dalla crisi ma anche dalla carenza di politiche rivolte a loro, è cresciuta la disuguaglianza. Stiamo costruendo sulle macerie: non si tratta più di esclusione sociale, siamo all’espulsione sociale. Il terzo settore è una realtà fatta di 4.700.000 di volontari, 1.000.000 di occupati, un fatturato da € 64.000.000.000, pari a 3% di Pil.

Ma se confrontiamo questi numeri con le altre nazioni, vediamo ad esempio che la Francia ha 9.500.000 di volontari, il 10% del Pil è prodotto dall’associazionismo volontario; gli Usa hanno oltre 62.000.000 di volontari. Da noi il terzo settore deve crescere, mentre in Italia c’è una crescita limitata, abbiamo l’atrofia del volontariato. E la ragione per cui siamo in situazione di asfissia, è perché abbiamo una famiglia forte e con questo pretesto il welfare non ha costruito l’edificio sociale, scaricando i suoi oneri. La famiglia da noi è stata la più colpita e ora se ne pagano i costi”.

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