8 agosto da non dimenticare!

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“Anzitutto, in pochi cenni, le magre novità della giornata. Nessun altro dei minatori sepolti nelle viscere del Casier è stato recuperato, né vivo né morto. L’incendio, a giudicare dal pochissimo fumo che esce da quella che si può chiamare davvero la miniera della morte e dalle notizie dei tecnici, si va estinguendo grazie all’opera dei pompieri, alla chiusura delle gallerie invase dalle fiamme mediante opere in muratura e sacchi di sabbia.

Ma all’ultimo piano della miniera, a 1035 metri di profondità, dove certo si trovavano 130 minatori, quasi metà degli scomparsi, non c’è arrivato nessuno e neppure si è arrivati alle gallerie superiori, in cui erano dispersi i rimanenti”: così raccontava il Corriere della Sera del 9 agosto 1956. Il disastro di Marcinelle avvenne la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, a seguito di un accordo che per ogni italiano lavorante nelle miniere era corrisposto all’Italia 200 kg. di carbone.

Si trattò di un incendio, causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. L’incendio, sviluppatosi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempì di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 274 presenti, in gran parte emigranti italiani. L’incidente è il terzo per numero di vittime tra gli italiani all’estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson. Il sito Bois du Cazier, ormai dismesso, fa parte dei patrimoni storici dell’UNESCO.

A distanza di 60 anni come italiani non possiamo dimenticare questi tragici eventi che ci hanno visti inermi protagonisti come migranti. Nel 2001, il governo italiano scelse questa data quale ‘Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo’, per rendere omaggio al ricordo dei connazionali che persero la vita a Marcinelle e di tutti gli italiani emigrati vittime di incidenti sul lavoro, come ha detto il presidente dell’Azione Cattolica della diocesi di Como, Paolo Bustaffa, nella memoria di Attilio Dassogno:

“Nel cimitero di Berbenno cercavo una traccia di quel minatore e sul muro di sinistra trovai la lapide con la foto di Attilio Dassogno, poco più di trent’anni, sposato e papà di due bimbi… Oggi ai rintocchi la campana ‘Maria Mater Orphanorum’ se ne devono aggiungere altri in memoria di quanti sono morti e ancora muoiono in mare, nel deserto e nei campi della disumanità mentre cercavano e cercano di fuggire dalla guerra, dalla fame, dalla violenza, dall’ingiustizia. Sono rintocchi che dovrebbero risuonare nella coscienza e diventare un monito e un motivo per una più matura e diffusa testimonianza cristiana di condivisione e accoglienza”.

Nelle settimane scorse il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della commemorazione del 60^ anniversario della tragedia di Marcinelle, ha ricevuto al Quirinale una delegazione di Sindaci abruzzesi guidata dal presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, in cui ha affermato: “L’immane sacrificio di coloro che sono partiti con la speranza di migliorare le condizioni di vita dei propri figli ha contribuito a costruire il presente del nostro Paese”.

Le testimonianze che restano di quei italiani che migrarono in Belgio dovrebbero essere stampate nella nostra memoria collettiva come quella di Davide Gialdi nel 1929 ed emigrato per mantenere la famiglia: “Leggendo i manifesti affissi all’ufficio di collocamento, venni a sapere che in Belgio c’era lavoro nelle miniere di carbone. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto: cavar piante, campagne allo zuccherificio, manovale al Genio Civile a mettere le fascine di legna ai pennelli del Po.

Avevo 17 anni e ‘obbligai’ mio padre, che era contrario, a firmare l’autorizzazione ad emigrare minacciandolo viceversa di arruolarmi in marina… Arrivammo a Charleroi con una tradotta di oltre mille emigranti alle quattro del pomeriggio del 4 dicembre 1947, giorno di Santa Barbara, festa dei minatori… Il 5 dicembre ero già al lavoro alla miniera numero 24 di Marcinelle al turno del mattino.

Il primo giorno mi dissero di seguire un capo (era un italiano). Già sull’ascensore, che scendeva velocissimo, presi paura. Una volta arrivato al fondo percorsi a piedi circa tre chilometri in galleria. Nessuno ci aveva spiegato a cosa andavamo incontro. Pian piano vedevo davanti a me sparire gli altri ad uno ad uno e mi sembrava di essere rimasto da solo al buio. Non sapevo che in realtà ognuno era entrato in ‘taglia’ al posto che gli era stato assegnato.

All’inizio mi misero a fare il manovale a spingere il carbone sul ‘bac’ che era una specie di canale di metallo che, azionato da stantuffi, spingeva in avanti il carbone a strattoni. Dopo circa due mesi e mezzo ho chiesto di passare minatore a cottimo. Lavoravo a 830 metri di profondità. Il mio numero di medaglia era il 276. Ho lavorato in taglie alte da 80 a 50 centimetri: a volte facevo fatica ad entrarci coricato e neppure la lampada ci entrava diritta…

Con quello che spendevo per la ‘cantina’ non mi rimaneva quasi nulla e invece avrei voluto mandare qualcosa alla mia famiglia che ne aveva bisogno. Ho fatto il primo mese con un solo paio di scarpe che usavo sia in miniera che fuori: avevo sempre i piedi neri!.. Non ho mai subito dei seri infortuni. Una volta ero salito in cima ad una taglia per finire di armare in un punto dove c’era il ‘grisou’: mi sentii mancare i sensi ma fortunatamente scivolai verso il basso in un punto dove di ‘grisou’ non ce ne era. Questo gas era pericoloso non solo per le esplosioni ma anche perché procurava l’asfissia… Nell’agosto del 1949 decisi di ritornare in Italia: il lavoro in miniera era pessimo e non si guadagnava quello che speravo…

Ero già più esperto e in questa seconda occasione fu meno dura. Rimasi fino al gennaio del 1957 e poi decisi di smettere definitivamente. I tre anni di lavoro in miniera (sempre in taglia) mi hanno procurato una silicosi del 26%. Rientrato in Italia, lavorai per 11 mesi alla costruzione del ponte sul Po. Successivamente emigrai in Svizzera dove rimasi circa due anni, imparando il mestiere di stuccatore”.

Però tale giorno è un passaggio da migranti a migranti. Infatti l’8 agosto 1991 attraccò nel porto di Bari il mercantile partito da Durazzo con 27.000 clandestini albanesi a bordo, che cercavano in Italia l’America, come 60 anni prima gli italiani in Europa. Fu il secondo grande sbarco in Puglia.

Gli albanesi furono trasferiti dalla banchina del porto allo stadio della Vittoria. Quel giorno lascia impresso nella memoria collettiva le immagini della nave ‘Vlora’ con a bordo migliaia e migliaia di persone. La nave dei profughi, prima respinta a Brindisi e dirottata a nord verso Monopoli, fu poi agganciata da rimorchiatori e ormeggiata nel porto del capoluogo pugliese. E l’Italia da popolo emigrante divenne popolo ospitante. Una data; due luoghi ed una storia comune da rileggere attentamente.

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