IL MONTE, LUOGO DELL’INCONTRO CON DIO, Sacra di San Michele, 21 maggio 2016
Vorrei iniziare queste mie riflessioni con quel sublime pensiero tratto dal discorso pronunciato dal Santo Padre Giovanni Paolo II, il 14 luglio 1991, in pellegrinaggio alla Sacra di San Michele:
“Il silenzio, la solitudine, l’ascolto e la preghiera,
qui favoriti da una incomparabile cornice naturale, artistica e storica,
non possono non suscitare pensieri elevati e alimentare il cuore dell’uomo,
sempre assetato di verità, che è Dio stesso”.
SGUARDO BIBLICO
Nella maggior parte delle religioni, il monte, per la sua altezza misteriosa, è considerato come il punto in cui il cielo e la terra s’incontrano. Nell’Antico Testamento, il monte è visto come una creatura come tutte le altre: Jahve è il Dio dei monti e delle valli (1Re 20, 23.28). Con Cristo, Sion cessa di essere “l’ombelico del mondo” (cf Ez 38,12) perché Dio non vuole più essere adorato su questo o su quel monte. Nel colloquio con la samaritana, infatti, Gesù non contrappone il tempio “ortodosso” di Gerusalemme a quello “scismatico” sul monte Garizim, ma esce da questa contrapposizione annunciando l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità (cf Gv 4, 20-24).
Qualità del monte come creatura di Dio
– Stabilità
Se gli uomini passano, i monti restano. Questa esperienza fa vedere i monti come simbolo della giustizia fedele di Dio: La tua giustizia è come le più alte montagne (Sal 36, 7). I Patriarchi paragonano la benedizione paterna superiore alla stabilità dei monti antichi (cf Gen 49, 26; Deut 33, 15). Queste creature, però, non devono essere divinizzate: Prima che i monti fossero, da sempre tu sei Dio (Sal 90, 2). Il Creatore che pesò i monti con la stadera e i colli con la bilancia (Is 40, 12) è colui che li tiene saldi con la sua forza (Sal 65, 7); li sposta a piacer suo (Gb 9, 5) e dona lo stesso potere al più umile dei credenti: In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spòstati da qui a là”, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (Mt 17, 20). Tutti quindi proclamino: O voi, monti e colli, benedite il Signore! (Dan 3, 75; Sal 148, 9).
– Potenza
Alto sopra le pianure che le calamità sovente sovrastano, il monte offriva un rifugio a Lot in pericolo (Gen 19, 17); il giusto perseguitato sale sul monte per rifugiarvisi come l’uccello (Sal 11, 1; Mt 24, 16). Il giusto, elevando gli occhi ai monti, otterrà l’aiuto soltanto da Jahve (Sal 121, 1s), diversamente confiderebbe in una creatura che è solo simbolo di potenza orgogliosa come Babilonia, dominatrice del mondo (Ger 51, 25). Isaia grida che ogni altura dev’essere umiliata e solo Dio esaltato (cf 2, 12 -17).
– Umiltà ed esultanza
Il salmo 89 canta che nel nome del Signore il Tabor e l’Hermon esultano (v. 13). Quando il Signore visita la terra, i monti prorompano in grida di gioia (Is 44, 23), saltellino dinanzi alle sue grandi opere (Sal 29, 6), lascino scorrere sui loro fianchi il vino nuovo e maturi il frumento sino alla loro vetta (Am 9, 13; Sal 72, 16). Geremia osserva: Guardai, ed ecco che tremano (4, 24) dinanzi a colui che può consumarli con il fuoco (Deut 32, 22), così da diventare fumanti, dice il salmo 104, 32; fondono come cera osserva il salmo 97, 5. E infine, l’Apocalisse profetizza che alla fine dei tempi spariranno: Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto (6, 14; cf 16, 20).
I monti privilegiati nell’AT
Luoghi della rivelazione
L’Esodo ci descrive il monte di Dio l’Oreb, nel Sinai, come luogo santo, lì dove Mosè ebbe la vocazione (30, 1.5), dove ricevette le tavole della legge (24, 12-18) e contemplò la presenza della sua gloria (24, 16). Anche Elia, Eliseo e altri profeti amano salirà e sostare sul monte Sinai per pregare e per ascoltare la voce del Signore.
Luoghi di culto
Se il monte alto permetteva di incontrare il Signore, la dispersione delle alture presentava il pericolo dell’idolatria (Ger 2, 20; 3, 23), ecco perché Sion fu un rifugio sicuro e incrollabile (cf Gl 3, 5; Sal 125, 1). Dio in persona ha stabilito il suo re in Sion, il suo monte santo (cf Sal 2, 6) nel luogo stesso dove Abramo sacrificò il figlio. Su questo monte santo i fedeli devono ascendere e ritornare continuamente, cantando i salmi delle ascensioni, dal salmo 120 al 134, nella speranza di rimanervi per sempre con il Signore (cf Sal 15, 1; 64, 2).
A differenza del Sinai, che rimane nel passato e non trova più posto, nella letteratura escatologica sarà il Sion a essere privilegiato: Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno tutti i popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore (Is 2, 2s). Su questo monte preparerà un grande banchetto per i dispersi radunati e per gli stranieri (Is 25, 6-10; 27, 13; 66, 20; 56, 6s). Anche Zaccaria profetizza che, mentre il paese sarà trasformato in pianura, Gerusalemme, pur rimanendo al suo posto, si eleverà tranquilla e sicura e tutti dovranno salirvi sempre ogni anno per adorare il re, il Signore (14, 10; 14, 16ss).
I monti nella vita di Gesù
Gesù, per evitare la pubblicità rumorosa e confusa, amava ritirarsi nella solitudine desertica del monte per pregare il Padre. I sinottici ignorano il monte Sion e mettono in evidenza il monte degli ulivi e quello della trasfigurazione.
Matteo, per le rivelazioni di Gesù, predilige i monti della Galilea. All’inizio, quando satana tenta Gesù offrendo il potere su tutto il mondo (4, 8), alla fine quando Gesù conferisce ai suoi apostoli il potere che ha ricevuto dal Padre (28, 16). Tra questi due momenti Gesù, dai diversi monti, ammaestra le folle (5, 1), guarisce gli ammalati, dona loro un pane meraviglioso (15, 29ss), e sul monte si trasfigura (17, 1ss). E’ da notare che l’evangelista a nessuno di questi monti da un nome, forse per evitare la tentazione idolatrica di piantarvi la tenda. Gesù, infatti, non fissa il suo insegnamento su un luogo, ma sulla sua persona.
La prospettiva di Luca segue un itinerario che sale verso Gerusalemme e che rappresenta la via che ascende verso la gloria attraverso la croce. Non è più il pellegrinaggio del pio israelita verso Gerusalemme, ma la salita che abbraccia tutta la vita di Gesù, centrando la sua attenzione sul monte degli Ulivi lì dove termina la salita a Gerusalemme. Sul quel monte il Messia doveva patire per redimere il mondo. Lì è acclamato e osannato solennemente (19, 37), lì agonizza e muore (22, 39), da lì ascende al cielo (Atti 1, 12). Il monte insegna a innalzare gli occhi verso colui che, secondo la teologia di san Giovanni, è stato innalzato da terra: Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo (3, 13).
L’Apocalisse contempla l’Agnello che, alla fine dei tempi, sta ritto sul monte Sion (14, 1). Questo monte, però, non è più, come nella visione di Ezechiele (40, 2), il luogo su cui è costruita la città, ma la sede dove si contempla la santa Gerusalemme: L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio (21, 10).
L’INCANTO DI REBORA
Rebora, nell’alveo della mistica ammirazione della sublime altezza della Sacra di S. Michele, espressione di fede espressa in pietre, trovò nella pace e nel silenzio momenti fervidi di creatività ascetica, letteraria e poetica e di totale immersione nel divino, favorito dallo stupore della natura circostante.
Nel silenzio contemplante del riposo fisico e nella fatica dello studio ascetico, trovò il tempo di scoprire e rivelare la grandezza di Rosmini che anche lui dimorò in questo luogo d’incanto. Rebora, attraverso lo sguardo mistico, definiva questo luogo alto sul monte “culmine vertiginosamente santo” e “ardimento inaudito di fede” in cui sembra verificarsi il fundamenta eius in montibus sanctis: gloriosa dicta sunt de te, Civitas Dei.
Nell’incanto di questa visione, fece l’elogio mistico e alla Sacra di San Michele e alla vetta della Madonna del Rocciamelone; vette che “si guardano e s’intendono in pace”. Scrivendo all’amico fraterno Eugenio Montale, Rebora dirà: “La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto”.
Il silenzio della solitudine, che si armonizza con la preghiera dell’ascolto all’interno di questo paradiso naturale, eleva il pensiero e alimenta il cuore; e da quel cuore che crede, scrive Paolo ai Romani, sgorga sulle labbra il canto della professione di fede che diventa canto della vita.