Grido lacerato dell’umanità ferita

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Il concilio Vaticano II, nella sua Costituzione Gaudium et Spes, ha dato un forte richiamo ai popoli e ai loro responsabili di dichiarare guerra a qualsiasi tipo di guerre, raccogliendo il grido di dolore di Pio XII e dei suoi successori: «Mai più guerra; mai più guerra». Grido di vita che ribadì Giovanni Paolo II ad Assisi, il 24 gennaio 2002, in occasione della giornata di preghiera per la pace nel mondo:

Mai più violenza!

Mai più guerra!

Mai più terrorismo!

In nome di Dio ogni religione porti sulla terra

Giustizia e Pace

Perdono e Vita,

Amore!

L’appello della Chiesa è il grido dell’intera umanità ferita e lacerata dalla violenza, dall’use elle armi e dalle morti ingiuste e crudeli. La messa al bando delle armi richiama sia la responsabilità dei fabbricanti sia quella dei mercanti i quali, pur di trarre profitto, compiono gesti vili e obbrobriosi finalizzati a uccidere i fratelli. Le armi sono strumenti intrinsecamente perversi e iniqui, il loro uso obbedisce alla logica satanica della viltà oltre a quella del disprezzo. Non possono essere fabbricate né vendute né disseminate senza ledere i principi del diritto, della giustizia e dell’etica.

Se nel mondo la carneficina umana aumenta, non può che stupire e indignare l’indifferenza internazionale di fronte a questa specie di macabro orologio della barbarie omicida. L’esistenza e la diffusione di questi insidiosi e sofisticati strumenti di morte contraddice gli sforzi che si compiono per la limitazione e il controllo delle più potenti armi di distruzione di massa in vista di un generale impegno di disarmo.

L’estensione del triste fenomeno delle popolazioni cacciate dalle loro case e dai loro campi a causa di eventi bellici e la moltiplicazione indegna di profughi e rifugiati rende ancora più assurda questa minaccia quotidiana che incombe e sovrasta persone investite dal flagello delle guerre, causa di distruzione e di morte. È, pertanto, urgente e necessario che emergano quei principi morali capaci di valutare gli aspetti tecnici e operativi situandoli nella superiore esigenza del rispetto della dignità umana, della vita e della pace.  

La fede ci assicura che noi uomini, davanti Dio, non siamo estranei ma figli, eredi del suo Regno e perciò destinati a condividere la risurrezione del Figlio suo Gesù che subì la morte per ridonare a tutti la vita. Anche se “gemiamo interiormente” facendo esperienza di tribolazione e pianto, la speranza nella fede ci soccorre e ci libera da ogni paura.

Ogni anno, il 2 novembre, nella luce pasquale di Cristo, la Chiesa celebra la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il ricordo non è nostalgia di chi li pensa finiti per sempre, la memoria orante è speranza di chi crede che all’uomo «la vita non è tolta ma trasformata». I defunti, viventi in Cristo, attendono, infatti, che si realizzi pienamente la beata speranza della gloriosa risurrezione con Lui.

Il cristiano, pur vivendo il dramma quotidiano della morte con il disfarsi fatale e irreversibile del corpo, guarda il morire come il termine della vita che segna il passaggio alla gloria della risurrezione nel Signore, “Redentore vivo”. Giobbe, pur vivendo drammaticamente la prova dolorosa che lo ha consumato, spalanca il cuore alla speranza e canta la sua antifona di fede: Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro (Gb 19,23-27). Per il cristiano, Gesù è il Redentore che è risurrezione e vita per chi crede e spera in Lui. Quel che consola è la sicurezza cristiana che, oltre la vita terrena, l’amore non muore, ma permane perché porta in sé il germe dell’immortalità che è la vita divina.

Il nostro cuore inchiodato alla croce crede fermamente che il fratello in umanità, passato dalla vita terrena all’eternità, continua a rimanere accanto a noi, anzi, è più presente che mai, in noi, nel mondo invisibile e reale della comunione dei santi. Il nostro spirito, crocifisso al dolore, penetra nel Regno dell’Amore ineffabile e scopre che Dio Padre opera attraverso interventi arcani. Mistero imperscrutabile, inaccessibile, drammatico, ma profondamente consolante. Soltanto l’amore della fede interpreta Dio! Questa fede d’amore diventa il linguaggio d’ogni creatura e ci fa intravvedere, come Mosè sul Sinai, il fuoco d’amore che brucia e non si consuma in mezzo ai rovi spinosi del dolore più drammatico e amaro.

San Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, ci dipinge la scena consolante di quell’ultimo giorno in cui, nelle braccia spalancate di Cristo, saremo consegnati al Padre: Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come, infatti, in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però a suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza (15,20-24). La morte è come finire di nascere, è l’ultima nascita, sarà preludio al risorgere definitivo nella vita eterna.

Quando i Padri della Chiesa cercano di configurare la vita del cielo e il segno della gloria, quasi sempre si riferiscono al gesto del cantare. Sant’Agostino così descrive la vita della gloria: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (La città di Dio, XXII,3,5). Quello che sulla terra si attua sacramentalmente nella divina Liturgia, in cielo è già piena realtà. Quello che in terra si contempla mediante la fede, in cielo si vive nella beata visione e nel canto dell’Amen e dell’Alleluia. Amen, dice ancora sant’Agostino, che è contemplazione della Trinità, Alleluia che ne è il godimento. Amen, premio di fede, Alleluia, premio d’amore. Così, il tempo e lo spazio, nati dal Fiat creativo, alla fine dei tempi, saranno immersi nell’Amen glorificativo dell’Alleluia. Allora, il grido lacerato dell’umanità ferita e mortale si trasformerà in canto di gioia perché Dio sarà tutto in tutti.

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