Calice e battesimo

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L’orazione colletta della XXIX domenica del Tempo ordinario ci fa chiedere al Padre della misericordia di concederci «un cuore generoso e fedele» per poter sempre servire il Signore «con lealtà e purezza di spirito», in modo tale che «il mistero che ci unisce al Figlio di Dio sia per noi principio di vita nuova». Queste invocazioni sembrano essere illuminate dalle letture dell’odierna liturgia della Parola.

Nel Vangelo di Giovanni troviamo la domanda che i figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, rivolgono a Gesù mentre è in cammino verso Gerusalemme: Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo… Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra (Mc 10,35.37). Questa presunzione d’amore è dettata da un desiderio naturale e da una incapacità di capire in che cosa consista la “gloria” di Cristo, che non ha nulla in comune con la gloria terrena. In effetti, i due fratelli non si rendono conto di quel che chiedono. Gesù risponde rivelando loro in quale modo si può prendere parte alla sua gloria: bisogna bere al suo calice ed essere immersi nella sua morte. Il significato di questa “gloria” divina non è capito neanche dagli altri discepoli che, anche se non hanno fatto la stessa richiesta, reagiscono con la medesima forza.

La via del discepolo non può essere diversa da quella del Maestro. Gesù, chiedendo loro se sono disposti a condividere il suo cammino di umiliazione, di sofferenza e di morte, ricorre a due immagini: il “calice” e il “battesimo”. E con decisione afferma: Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato? (v. 38). L’immagine del calice significa la sua sofferenza messianica redentrice, quella del battesimo indica il martirio e la morte. Alla domanda di Gesù che chiede loro se possono realizzare questo suo progetto, i figli di Zebedeo, anche se non hanno capito, rispondono con decisione che possono farlo.

Il diritto alla prenotazione dei primi posti è pretesa dell’orgoglio umano che non s’addice alla comunità senza potere voluta dal Maestro. Gesù contrappone la comunità messianica alla società civile. In questa, ci sono i governanti delle nazioni che dominano con durezza e i capi che fanno sentire il peso della loro autorità. Dominio e potere connotano il comportamento di chi ha autorità sulla terra. Naturalmente, la figura opposta a chi comanda è quella di chi serve. Per Gesù, il primato consiste e si esercita nel servire: nella comunità cristiana, infatti, il capo ha il compito di servire. La ragione ultima di questa struttura ecclesiale sta precisamente nel fatto che Gesù non è venuto per farsi servire, ma per servire e donare la propria vita per salvare tutti. Il gesto di servire e donarsi in riscatto costituisce la motivazione di questa paradossale ecclesiologia in cui c’è in gioco la continuità tra la Chiesa e Gesù, suo fondatore, che è il “Servo” che spende la sua vita per tutta l’umanità.  

Il brano chiude con una frase che sintetizza l’intera esistenza di Gesù e la sua missione salvifica sotto la categoria del “servizio” inteso non in senso generico e astratto, ma concreto e attualizzato nel dono di sé come “riscatto” per molti. Si tratta dell’opera redentrice di Cristo che è rivelazione e attualizzazione del progetto d’amore del Padre verso l’umanità.

La legge fondamentale della comunità ecclesiale è data dall’imperativo del Maestro: Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (v. 43-44). È un indicativo che fonda l’imperativo che è legge di vita. Il criterio della grandezza e del primato si trova nel servire la comunità: ciascuno è servitore di tutti. Nella Chiesa nessuno è padrone. Tutti sono chiamati per svolgere un servizio attraverso i ruoli, gli incarichi, gli uffici, che sono modalità diverse della stessa chiamata.

L’esempio del servizio di Gesù definisce il fine della sua missione: Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (v. 45).  Il Servo sofferente, di cui parla Isaia al c. 53, è il Figlio dell’uomo che prende spontaneamente su di sé il peccato di tutti e si offre in sacrificio per espiare i peccati degli altri, realizzando così il volere di Dio nei confronti dell’umanità decaduta. È chiaro che qui il termine giuridico-penale “riscatto” è usato metaforicamente per indicare la redenzione, la riconciliazione con Dio che rivela il suo amore misericordioso. Il “riscatto”, infatti, indica l’infinita misericordia del Padre che, attraverso il Figlio immolato, sottrae l’uomo peccatore dalla morte e lo salva. Il Figlio dell’uomo, infatti, com’è venuto per servire, così si è fatto carne della nostra umana natura per donare la vita in riscatto per l’umanità intera. La misericordia, dunque, è sempre servizio e impegno, dono, redenzione e vita. L’evangelizzazione ha come fine di costruire concordia all’interno della famiglia umana in cui il servizio è dovere inderogabile e il riscatto fondamento dell’universale salvezza. Siamo convinti che una Chiesa che si organizzi a immagine e somiglianza del potere politico o s’inserisca come parte integrante della sua struttura, non corrisponde affatto al progetto essenziale del suo divino Fondatore.

Perché, dunque, celebriamo l’Eucaristia? Perché il servizio della croce presente nel sacramento dispiega la sua forza redentiva donandoci la possibilità di condividere l’oblazione della vita del Redentore.  Ci insegna, altresì, ad amare e, creando comunione con Gesù, ci rende capaci di far parte dei “suoi”. L’Eucaristia è pregustazione delle realtà del cielo, sorgente dei beni terreni e speranza di possedere quelli futuri. Fare l’Eucaristia significa, infine, fondare l’attesa di condividere la “gloria” futura.

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