Dal canto del cuore al Cantico delle creature

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Cor ad cor loquitur! Nel 1855, John Henry Newman, in una lettera di san Francesco di Sales all’arcivescovo di Bourges, aveva colto una frase significativa e programmatica:

Quantum vis ore dixerimus,

sane cor cordi loquitur,

lingua non nisi aures pulsat.

La sincerità del cuore e non l’abbondanza delle parole tocca il cuore degli uomini: “dal cuore alla parola”. Mi lascio illuminare dalla celebre frase dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore… Con il cuore, infatti, si crede… e con la bocca si fa la professione di fede (10,10). Poesia e musica, per loro natura, hanno in sé una capacità straordinaria di narrare la fede. Francesco d’Assisi cercò di trasformare il credere col cuore in sublime arte poetica. Ri-dicendo la credulitas cordis con la contemplatio artis creò il suo Cantico delle creature in atmosfere di visioni mistiche.

Per Francesco, l’amore terreno e umano è una pallida idea di quel che è realmente la Fiamma dell’Amore divino. Incarnando quest’ideale contemplativo, Francesco era visto come “creatura fatta preghiera”. Tommaso da Celano, discepolo e primo biografo di Francesco, definirà il Santo: Totus non tam orans, quam oratio factus (2.a Celano 95 X).  

Il Poverello d’Assisi non era un pensatore che si poneva sul piano teorico e astratto, ma su quello dell’essere; non cantava il Creatore e il creato con l’arte dei sillogismi, ma con la percezione dell’amore che diventa canto della vita. L’arte del contemplare non era annullata o assorbita dalle realtà quotidiane, non era estranea alle attività della vita, ma era forma e stile di “aderire a Dio”. Per vivere questo ideale, però, si esige libertà di coscienza, povertà di spirito e semplicità di cuore.

Francesco non si può capire razionalmente, l’atteggiamento fondamentale è quello della contemplazione incarnata nella vita. L’incanto della contemplazione è gesto di percezione e d’immersione nella verità divina che trasforma e raffina lo spirito. È intenso desiderio di vedere il volto di Dio e gustare la comunione col suo mistero. È espressione “normale” della santità che s’innesta nella coscienza del mistero insondabile della potenza divina e della presenza sovrumana di Dio. In Francesco, l’incanto della contemplazione si trasfigura in Cantico delle creature.

Cicerone, offrendoci la più bella e sintetica definizione della “cantabilità” della parola, dice che il canto è insito nel linguaggio come un embrione: Est autem in dicendo etiam quidam cantus obscurior (Orator XVIII,57). Quando le parole sono pronunziate con la massima intensità espressiva, nella parola parlata si rivela l’in-canto della parola. Dalla vita intima della parola nasce la magica formula chiamata casmes, in-cantum che definisce quel “cantar dentro” che è “incantesimo” della parola! Quest’incantesimo raggiunge il suo vertice quando si ama in entusiasmo. Canto e amore, infatti, con-vivono in duetto di mirabile simbiosi. Per Francesco, pregare è amare cantando. L’in-canto è già preghiera d’amore. Il canto, infatti, è raffinatissima ed elevata espressione d’amore e Francesco era in simbiosi con l’affermazione di Agostino: Cantare amantis est! Questa sinfonica comunione ha origine e inesausta sorgente in Dio che si rivela a noi come Amore donato, riversato nei nostri cuori. L’amore divino, di cui è ricolmo il cuore del Poverello d’Assisi, sgorgando dal cuore, fioriva in canto sulle sue labbra, come sublime litania di purissima lode e rendimento di grazie.

Laudato si’, mi Signore

Era notte!

Quella notte, giunto all’estremo delle forze per i suoi patimenti, in un impeto d’entusiasmo, Francesco disse ai suoi fratelli: «Voglio, quindi, a lode di Lui e a mia consolazione e per edificazione del prossimo, comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature. Ogni giorno usiamo delle creature. E senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore. E ogni giorno ci mostriamo ingrati per questo grande beneficio, e non ne diamo lode, come dovremmo, al nostro Creatore e datore di ogni bene». Dopo essersi seduto, si mise in stato di riflessione, poi iniziò: «Altissimo, Onnipotente, bon Signore» (Leggenda Perugina, 43, in Fonti Francescane, 1592).

Francesco punta lo sguardo su Dio e, in Dio, con gli occhi del cuore ricolmo di gratitudine, contempla le opere della creazione, anche se ormai è incapace di vederle fisicamente. Il Santo, infatti, «non essendo in grado di sopportare di giorno la luce naturale né durante la notte il chiarore del fuoco, stava sempre nell’oscurità in casa e nella cella. Non solo, ma soffriva notte e giorno così atroce dolore agli occhi, che quasi non poteva riposare e dormire, e ciò accresceva e peggiorava queste sue infermità» (Celano, Vita seconda, FF 1591).

Ogni creatura del cielo e della terra rivela il suo incanto: il sole, la luna e le stelle, i fenomeni atmosferici, il vento, il sereno e la pioggia. Poi, con lo sguardo ammirato, Francesco inneggia alle creature che vivificano e abbelliscono la terra: acqua, fuoco, piante, erbe, fiori e frutti. Guarda e gusta il creato con gli occhi limpidi della semplicità, abbracciando tutto con lo sguardo d’amore che rispecchia la creazione senza artificiosi e falsi riflessi.

La storia ci tramanda che il Cantico terminava in questo punto, ma un fatto storico indusse Francesco a continuarlo: era sorto, infatti, un dissidio tra il Vescovo e il Podestà d’Assisi. Rivolto ai fratelli, il Santo disse: «Grande vergogna è per noi, servi di Dio, che il Vescovo e il Podestà si odino talmente l’un l’altro e nessuno si prenda pena di rimetterli in pace e concordia». Inviò, allora, alcuni frati a cantare il cantico con la nuova strofa alla presenza dei due contendenti i quali, dopo averlo ascoltato, si riconciliarono (Leggenda Perugina 44, FF 1593): «Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore». L’in-canto del testo sul perdono diviene “sacramento” di misericordia e di concordia!

Per il contemplativo, il dolore e la sofferenza accolte con fede non impediscono la letizia soprannaturale. San Bonaventura annotò che in Francesco la gioia trasfigurava anche le lacrime. Il Poverello d’Assisi, consumato ormai dalle logoranti malattie, chiude la lunga litania laudativa alla vita con la trenodia contemplativa dell’ultima strofa: «per sora nostra Morte corporale». Mentre il suo cuore inondato d’amore va spegnendo i ritmi di vita, i suoi frati cantano per l’ultima volta quel cantico che lo accompagna nel “transito” pasquale verso il possesso della contemplazione eterna di Dio (cf LP 100, FF 1656). E così, con il canto sulle labbra e nel cuore, accoglie “sorella morte”.

Nella strofa conclusiva, Francesco si rivolge agli uomini e li esorta a lodare, benedire, ringraziare e servire con grande umiltà l’«Altissimo, Onnipotente, bon Signore». Santità e poesia, contemplazione e canto, sono espressione di una vita trascorsa nell’incanto dello stupore: «Francesco compose anche la melodia, che insegnò ai suoi compagni. Il suo spirito era immerso in così grande dolcezza e consolazione, che voleva mandare a chiamare frate Pacifico – che nel secolo veniva detto “il re dei versi” ed era gentilissimo maestro di canto – e assegnargli alcuni frati buoni e spirituali, affinché andassero per il mondo a predicare e lodare Dio. Voleva che dapprima uno di essi, capace di predicare, rivolgesse al popolo un sermone, finito il quale, tutti insieme cantassero le Laudi del Signore, come giullari di Dio» (FF 1591).

Ogni vita contemplativa, proprio perché storia d’amore teandrico, è vita di grande “dinamismo” interiore proiettato nel vissuto quotidiano. Ogni “disincarnazione” è falsa contemplazione. Ogni fuga dalla storia e dalla comunione con gli altri è alienazione. Cristo si è incarnato per coinvolgere tutti gli uomini nel “dinamismo” della sua venuta nel tempo e nella storia, al fine di farci con-vivere l’avventura di Figlio unico e prediletto del Padre. Per questo, ogni credente dovrebbe rivedere quotidianamente il suo rapporto con la storia e con le creature. Quanti tagli bisogna operare per sfrondare tutto ciò che è di peso inutile e dannoso nella crescita della vita di “consacrati” solo all’Amore!

Bisogna vivere in Dio, Creatore, Architetto, Sommo Artista. Egli crea e scrive col Dito della sua mano la storia di ciascuno di noi. Il contemplativo è sempre posseduto da questa divina presenza. E, allora, più che apparire “persone serie” dai volti scuri, austeri, irti, quasi maschere, bisogna essere “persone vere” dagli sguardi luminosi che vivono in profondità il cantico della pace e della gioia nell’avventura d’amore con Dio Uno-Trino.

Nell’ultima Cena, Giovanni, il discepolo che Gesù amava, poggiando il capo sul cuore del Maestro, implorava tenerezza. Per realizzare questo stile di vita, si richiedono: delicatezza d’ascolto, luminosità di sguardo, sapienza di percezione all’interno di quel silenzio eloquente che fa gustare l’Amore, assaporandolo.

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