Il Meeting racconta il martirio dei cristiani

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Giornata intensa ed appassionante quella di domenica a Rimini, dove al Meeting si sono raccontate le testimonianze di cristiani, partendo da un’omelia di papa Francesco durante una celebrazione eucaristica a santa Marta nello scorso aprile:

“E pensiamo ai nostri fratelli e sorelle perseguitati perché cristiani, i martiri di oggi: non rinnegano Gesù e sopportano con dignità insulti e oltraggi. Lo seguono sulla sua via… Possiamo parlare di un nugolo di testimoni… Oggi la Chiesa è Chiesa di martiri: loro soffrono, loro danno la vita e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza”.

Con queste parole il moderatore, don Stefano Alberto, ha introdotto, davanti a più di 15.000 persone, i due ospiti più attesi di questa edizione: padre Douglas Al-Bazi, parroco di Mar Eillia ad Erbil in Iraq, e padre Ibrahim Alsabagh, parroco della Comunità Latina di Aleppo, Siria, che hanno raccontato le difficoltà e le storie di vita dei cristiani, che vivono in quei Paesi.

Padre Douglas ha raccontato la storia del popolo cristiano ed il suo rapimento, chiedendo all’uditorio di non guardarlo come eroe: “Sono semplicemente un iracheno cristiano fiero di esserlo, che ama il suo paese. Nell’ultimo secolo, il mio popolo è stato attaccato otto volte, e quattro volte spinto a migrare (due all’interno dell’Iraq, due all’estero)”.

Ha spiegato il motivo degli attacchi ai cristiani: “Si tratta dell’ultimo gruppo educato in quel territorio. L’ultimo gruppo capace di distinguere tra il bene e il male. L’ultimo gruppo in grado di dire al governo: ‘Stai sbagliando’. L’ultimo gruppo che è in sé stesso una finestra sul mondo, in grado di far entrare il mondo in Iraq. Per questa ragione hanno attaccato gli ebrei, 50 anni fa; ora è il turno dei cristiani.

Nel 2005 è cominciata la prima guerra civile tra sciiti e sunniti. Quando questo accadde, noi cristiani ci siamo trovati nel mezzo, così come eravamo nel mezzo dello scontro tra curdi e governo centrale.

Nel 2006 papa Benedetto XVI svolse il suo discorso a Ratisbona, cui i musulmani reagirono: fummo noi a farne le spese. Il giorno dopo quel discorso ho trovato davanti alla mia chiesa di Baghdad un pacco di plastica; insieme a un ragazzo mi accostai a non più di sette metri di distanza e mi ritrovai sbalzato di trenta metri indietro per l’esplosione della bomba”.

Poi ha raccontato del suo rapimento, dopo alcune minacce da parte dell’Is di abbandonare quella terra: “In seguito sono stato rapito per nove giorni, che non dimenticherò mai. Ve lo racconto perché la mia storia è la storia del mio popolo. Era un giorno normale, dopo la messa ero andato a trovare dei miei amici; hanno bloccato l’autostrada davanti alla mia macchina, mi hanno fatto uscire dall’auto e mi hanno messo nel bagagliaio di un’altra automobile con la quale mi han portato non so dove.

Il primo giorno mi hanno rotto il naso, poi mi han lasciato per quattro giorni senza acqua. Per questa ragione ancora oggi non vado mai a letto senza dell’acqua accanto; tutte le notti mi sveglio spesso, tocco la bottiglia e mi rassicuro… Poi mi portarono in una stanza orrenda, mi incatenarono e mi costrinsero ad ascoltare notte e giorno la predicazione del Corano ad alto volume, per dimostrare ai loro vicini che erano religiosi.

Cominciarono la tortura rompendomi un dente col martello; la bocca si riempì di sangue, ma mi invitarono a non preoccuparmi di questo: ‘La notte è lunga e tu hai tanti denti’. Poi mi ruppero un disco della colonna vertebrale. Non posso non pensare a queste cose, ogni volta che prendo in mano un martello. Ma il peggio è quando adoperarono parolacce e insulti nei confronti della mia gente e io non potevo rispondere per un semplice motivo: perché non sono come loro”.

In seguito ha raccontato la storia della sua famiglia: “Ho raccontato questa storia perché il mio popolo sta morendo, ma non per la mancanza di cibo: quel che mi spaventa è che la stessa storia è stata raccontata già da diverse generazioni. Il mio bisnonno fuggì dall’Armenia durante il genocidio operato dai turchi; mio nonno fuggì a Mosul; mio padre fuggì a Baghdad; io da Baghdad sono risalito a Erbil”.

Infine ha raccontato che il popolo cristiano in Irak riesce a vivere, perché ancora nutre la speranza, in quanto senza di essa non c’è futuro: “Distinguendo tra il breve e il lungo termine, nel breve termine dobbiamo aiutare la gente a guarire, ma nel lungo termine dobbiamo aiutare la gente, le generazioni a crescere. Ecco perché parlo di educazione.

L’Isis era un vermicello, ma è diventato un dragone perché ha trovato gente ignorante, senza educazione. Non dobbiamo esser egoisti, dobbiamo fermare il dolore alla nostra altezza, impedendo che si trasmetta alla generazione successiva. La conoscenza è l’arma più potente contro le menti vuote dei malvagi”.

Anche il francescano padre Alsabagh ha raccontato la vita dei cristiani ad Aleppo con la mancanza di elettricità, gli uomini mutilati, le case distrutte, la gente che vive per strada, i giovani senza un futuro. E soprattutto una città rimasta senz’acqua per un mese e mezzo in un luogo dove d’estate le temperature raggiungono i 50 gradi. Padre Ibrahim Alsabagh ha narrato la dura realtà quotidiana che sta vivendo:

“Viviamo nell’instabilità, mancano le risorse alimentari, l’acqua, siamo sotto i bombardamenti e le malattie si diffondono. Vengono a chiederci l’acqua in convento. E noi cerchiamo di cogliere in tutto questo i segni dello Spirito, condividendo questa esigenza e altri mille problemi, ma aprendo sempre a tutti, cristiani e mussulmani, le porte del convento…

Essere lì da cristiani in questa pentola bollente, la Siria e tutto il Medio Oriente, è molto importante per dare il sale, il sapore a ciò che bolle in questa pentola. Molti sognano di scappare, è normale, hanno paura. Ma molti tra noi cristiani sono convinti che il Signore già ai tempi di san Paolo ha piantato l’albero della vita nel Medio Oriente. Noi non vogliamo portare via questo albero”.

A termine del suo intervento ha raccontato un episodio molto importante: Quest’inverno ad Aleppo c’era molto freddo e mancava l’elettricità. Siccome è una città quasi desertica infatti c’è una forte escursione termica. Un giorno mi arriva un giovane e mi dice: ‘Padre, forse lei ha un angolo nella chiesa dove posso studiare al riparo dal freddo’. Per me le parole di quel giovane sono state come un’illuminazione divina.

Subito mi sono deciso a fare qualcosa per lui e per le altre centinaia di studenti che stavano preparando gli esami universitari. Abbiamo attrezzato una sala parrocchiale con i banchi e le sedie e messo una stufa a gasolio. Con sorpresa, il giorno dopo sono arrivati fino a 100 ragazzi per studiare”.

Infine, fuori programma, è stato proiettato il video realizzato dal cooperatore dell’Avsi, Giacomo Fiordi, con la famiglia di Myriam, la bambina irakena di Qaraqosh che vive nel campo profughi di Erbil a quasi 50 gradi, in cui la mamma, al termine dell’intervista, ha affermato: “E’ solo tramite Dio che possiamo imparare a perdonare, perché perdonarsi è una grazia che riceviamo da Lui, non è una cosa solo umana. Quando perdoni gli altri ricevi una grande pace. Provare la pace ti permette di andare avanti nella vita”.

Nel primo pomeriggio il popolo riminese ha potuto assaporare la dolcezza della testimonianza di suor Maria Angela Bertelli, missionaria saveriana in Thailandia, fondatrice di una casa di accoglienza per bambini disabili, orfani e rifiutati: la casa degli Angeli.

La ragione della casa di accoglienza è sorta perché nella religione buddhista non è contemplata l’idea di Dio; ciò determina nelle persone maggiormente sofferenti e non efficienti, la consapevolezza di un’impossibilità di riscatto e un conseguente ritiro dal mondo, una mancanza di rapporti veri, un disimpegno verso la comunità:

“Di fronte a ciò io, che non avevo in mente di fondare nulla, ho iniziato a vivere la bellezza della notizia del cristianesimo, perché noi veniamo da una grazia enorme: chi ha conosciuto Cristo ha conosciuto l’amore vero, la gratuità. In Thailandia non esiste neanche come parola, gratuità. Occorre formare una frase per spiegarne il concetto”.

Invece nel cristianesimo: “Dio ha un metodo che non può essere invenzione dell’uomo. Un Dio che si fa povero e debole è inimmaginabile! Ancora oggi si ripresenta così: nelle periferie. Così che io posso dire alle mie mamme che il loro bambino da maledizione è diventato una grazia. E proprio lui le ha portate per mano verso Gesù, che vive su di sé la ‘punizione di Dio’, la porta con sé. Questa realtà c’è e la dobbiamo solo riconoscere. Qui come in Thailandia”.

La serata è stata conclusa con la visione dei reportages di Gian Micalessin (con la collaborazione di Fausto Biloslavo e la produzione di ‘Aiuto alla Chiesa che Soffre’): ‘Iraq e Siria: i cristiani nel mirino’; e di Fernando De Haro: ‘Nasarah’, in cui si è evidenziato il confronto tra quello che sta avvenendo ora in Medio Oriente con il genocidio degli Armeni nel 1915.

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