La Caritas denuncia il caporalato in agricoltura

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Lo sfruttamento del lavoro dei migranti nel settore agricolo è un fenomeno che ha assunto proporzioni inquietanti e la Caritas Italiana ha reso note ieri le cifre di questa piaga: fra il 2010 e il 2013 almeno 5400 raccoglitori, quasi interamente migranti sono stati sfruttati da caporali e associazioni mafiose. Secondo la Caritas si tratta di una cifra sottostimata visto che nel 2014 sono stati registrati 1300 casi di sfruttamento in soli sei mesi che sono diventati 2000 nei primi mesi del 2015, quindi prima dei mesi dei raccolti estivi in cui si raggiunge il picco di richiesta di personale.

Ma, come sottolineato da Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas Italiana, il fenomeno dello sfruttamento del lavoro non riguarda soltanto l’agricoltura, ma si verifica anche nell’edilizia, nell’industria e nel lavoro domestico. Questi lavoratori costituiscono la parte più vulnerabile dell’immigrazione in Italia, in quanto si trovano in condizioni tali che solo una prestazione fortemente sfruttata può dare loro quel minimo per sopravvivere, ma ovviamente in condizioni inaccettabili.

Lavorano per ore sotto il sole cocente, nelle serre asfissianti, curvi verso terra o con le braccia alzate per raccogliere pomodori, arance, uva. Sono il motore fondamentale del mercato ortofrutticolo italiano che ogni anno muove più di dieci miliardi di euro, eppure loro, gli invisibili dell’agricoltura, guadagnano solo due euro all’ora quando non muoiono di fatica, come è successo a Paola Clemente, una bracciante di 49 anni di San Giorgio Jonico, vicino Taranto, morta mentre raccoglieva uva nelle campagne di Andria; oppure a Abdullah Mohammed, 47 anni, sudanese, stroncato a Nardò (Lecce) dalla raccolta di pomodori; od a Zakaria, 52 anni, tunisino, per infarto dopo aver caricato cassette di uva su un camion a Polignano (Bari)… e l’elenco è molto lungo.

La Caritas, attraverso il progetto ‘Presidio’ ha catalogato i cinque profili dei caporali scovati nel rapporto. Il primo è il ‘caporale-lavoratore’, che svolge le stesse mansioni degli altri, ma porta manodopera e per questo ha piccoli benefit. C’è poi il ‘caporale-tassita’, che si fa pagare per il trasporto giornaliero sul campo all’inizio e alla fine dei turni. C’è il ‘caporale-venditore’ che si fa pagare per portare beni di prima necessità ai lavoratori. Quarto tipo è il ‘caporale-aguzzino’ che impone ad ogni suo sottoposto una tassa: è la tipologia più violenta. Ultimo caso è il ‘caporale-amministratore delegato’ che per ogni segmento della filiera del raccolto ha un guadagno extra.

il progetto ha seguito 1.277 persone. La maggioranza dei lavoratori è concentrata tra Saluzzo (24,3%) e Foggia (19,2%). In maggioranza si tratta di burkinabè (250 circa), maliani (150), ghanesi (130), tunisini (100) e ivoriani (100). I principali Paesi di provenienza dei caporali sono Burkina Faso, Ghana, Tunisia e Marocco.

Nel Paese nordafricano, ad esempio, gli operatori segnalano l’esistenza di liste gestite da caporali stavolta italiani attraverso le quali si viene ‘selezionati’ per entrare nel decreto flussi. L’ ‘iscrizione’, illegale ovviamente, costa tra i 2/3.000 euro. Il salario medio che guadagnano nei campi va tra i 20 e i 25 euro, solo in pochissimi casi tra i 30 e i 40 euro al giorno. La metà di chi si trova a lavorare nei campi non ha un documento, ma questo è percepito come un’urgenza solo in un caso su dieci; mentre il problema più sentito è la casa, segnalata come priorità da tre schiavi del raccolto su dieci, soprattutto burkinabè (meno i tunisini).

Due lavoratori su tre, infatti, sono costretti a vivere in baraccopoli. Sono 317 i casi di sfruttamento lavorativo (181 quello di sfruttamento multiplo) che sono stati poi seguiti da progetti di reinserimento sociale. Il maggiore sfruttamento si segnala in Emilia-Romagna (102 casi), seguita dalla Lombardia (60 casi) e la maggior parte dei casi si concentrano al Nord Italia.

Quindi, sebbene infatti la metà degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un kapò migrante (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro. I kapò provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore.

Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei paesi d’origine. Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana), con alloggi di fortuna come i casolari abbandonati senza acqua né luce né gas e mangiando alle mense della Caritas.

Sono pochi quelli che riescono a vivere con più di 100 euro a settimana (2,7%) e pochissimi coloro che vivono con 200/300 euro al mese (il 17,4%). Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose,, una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute.

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