Migranti: perché siamo diventati inospitali?

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Nonostante le famose ‘grida’ manzoniane contro la Chiesa italiana che accoglie i migranti, la sua azione misericordiosa non si arresta: tantissime sono le Congregazioni e gli Ordini religiosi che hanno saputo ascoltare le parole del Papa e trasformarle in un quotidiano esercizio di carità, perché con l’accoglienza e con la fraternità si può aprire una finestra sul futuro.

E così oltre alla rete del Centro Astalli, promossa dai gesuiti per i rifugiati che opera a Palermo, Catania, Vicenza, Trento, Napoli, Padova, Milano e Roma, hanno spalancato le porte delle proprie comunità i Guanelliani a Como, Lecco, Nuova Olonio (Sondrio) e a Sormano (Como), i Francescani ad Enna, Roma e Piglio, nel Frusinate, i Pavoniani a Moggio di Valsassina (Lecco), gli Scalabriniani a Roma e Foggia, le Suore mercedarie a Valverde di Scicli, nel Ragusano, le Orsoline a Caserta, le Suore della Provvidenza a Gorizia, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza a Lora (Como) ed Ardenno (Sondrio); ma l’elenco non ha la pretesa di esaurire un’accoglienza che è in continuo divenire.

Questa disponibilità dei religiosi nasce dalla capacità di ascolto delle tante povertà che abitano la società di oggi: ne è prova l’opera di accoglienza della Congregazione delle Suore della Provvidenza che a Gorizia sta ospitando 150 persone richiedenti asilo. Per tanti che hanno offerto i loro spazi per l’accoglienza ci sono anche religiosi, come i Comboniani che da sempre se ne occupano:

a Brescia, ad esempio, da 15 anni attraverso il progetto ‘Tenda di Abramo’ che offre 20 posti letto e ‘Tenda di Sarah’ che accoglie una dozzina di mamme con bambini si lavora per l’inserimento e l’integrazione delle persone straniere; in prima linea anche i Somaschi a Legnano, che gestiscono un centro che ospita 25 richiedenti asilo provenienti da Gambia, Ghana e Senegal e a Como, dove assieme alla Caritas diocesana, hanno a luglio iniziato ad accogliere 30 persone richiedenti asilo.

Ed in una lettera, pubblicata nei rispettivi settimanali diocesani il vescovo di Treviso, mons. Gianfranco Agostino Gardin, e quello di Vittorio Veneto, mons. Corrado Pizziolo,hanno invitato i loro concittadini ad aprirsi all’accoglienza: “Fratelli e sorelle carissimi, già da qualche anno al territorio delle nostre due diocesi, come del resto a tutto il nostro Paese, è chiesto di offrire accoglienza ad un certo numero di ‘migranti forzati’, tra i quali vi sono richiedenti asilo, rifugiati e migranti economici.

Ad oggi, in provincia di Treviso, sono presenti circa 900 migranti, arrivati sia nel 2014 che nel 2015: in media 10 persone per comune, uno ogni mille abitanti. Recentemente l’arrivo di migranti ha dato luogo a qualche episodio di particolare tensione sociale, anche a causa di scelte improvvide per la loro sistemazione”.

Dopo aver ricordato che il fenomeno migratorio ha radici complesse e domanda soluzioni impegnative, i vescovi hanno rilevato come a livello nazionale ed europeo la gestione dei flussi appaia non sufficientemente pensata e organizzata: “Come Chiesa noi vogliamo essere attenti osservatori della realtà, non condizionati da letture preconcette e frettolose di quanto sta avvenendo; e vogliamo cogliere soprattutto il ‘costo umano’, per chi arriva e per chi accoglie, di questi eventi. Desideriamo, nei limiti delle nostre possibilità, aiutare a dare risposte che partano dalla considerazione della dignità e della situazione drammatica di tante persone.

Vorremmo che preclusioni di principio, atteggiamenti di parte dettati dall’appartenenza politica, come pure l’accento posto solo sul ‘disturbo’ che queste persone ci arrecano, non ci togliessero la libertà interiore di pensare e agire secondo alcuni criteri irrinunciabili per i cristiani”.

Allora, in queste occasioni come si devono comportare i cristiani?, si chiedono i vescovi: “La nostra terra, che si connota nell’opinione comune come regione dal cattolicesimo benradicato, viene dipinta in questi giorni, anche a causa alle frettolose semplificazioni dei media, come terra di inospitalità, di durezza, di egoismo. Vorremmo proprio che non fosse così. Una certa integrazione con molti immigrati fa ormai parte della nostra storia recente.

Sappiamo, del resto, che non mancano le persone che si prodigano con generosità e dedizione verso questi fratelli disperati che stanno giungendo tra noi: lo fanno senza clamore e senza richiedere niente in contraccambio, sfidando anche, purtroppo, l’ostilità di alcuni. Li ringraziamo di cuore. Si dice che vi sia chi specula sull’accoglienza: è possibile; ma ci dispiace che questo giudizio talora sia espresso indiscriminatamente su tutti, non esclusa la Caritas. Non vorremmo che fosse un modo ignobile di cercare scuse alla propria grettezza.

Come comunità cristiane non dobbiamo rinunciare a fare la nostra parte, per quello che possiamo, senza rifugiarci dietro la vastità del fenomeno e la sua infelice gestione ‘a livello alto’. Abbiamo cercato strutture, mezzi, persone; invitiamo al dialogo, alla ricerca comune di soluzioni, alla solidarietà. Del resto ci sentiamo interpellati da domande non eludibili”.

Ed hanno concluso la lettera affermando che l’accoglienza e l’integrazione sono possibili: “Esse chiedono però il coinvolgimento di tutti: istituzioni, amministrazioni locali, privato sociale, associazioni, e certamente anche le comunità cristiane. Vorremmo che si potessero perseguire scelte che nascano, nello stesso tempo, dall’intelligenza e dal cuore; vorremmo che si mettesse in atto una progettualità che preveda una accoglienza diffusa nel territorio.

Del resto le nostre diocesi, attraverso la Caritas ed in collaborazione con altre realtà del privato sociale, stanno sperimentando questo modello, il quale sta offrendo buoni risultati e mostra una sua efficacia.

E se proprio ci ritroviamo a constatare la precarietà delle nostre risposte a questa drammatica emergenza, non rifugiamoci nell’indifferenza, non rispondiamo come Caino: ‘Sono forse io il custode di mio fratello?’ Almeno lasciamo spazio alla tristezza per non riuscire a fare quanto vorremmo, almeno solidarizziamo con l’amarezza di chi sperimenta il rifiuto di essere accolto, almeno piangiamo”.

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