Né iconoclasti né musicoclasti 

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Sant’Agostino afferma: Cantare amantis est! Il gesto del cantare è proprio di chi sa amare. Mi scrive l’amico filosofo Michelangelo Lorefice: «La musica invoca l’Amore e l’Amore concede alla Musica di poter cantare il Mistero».Saper celebrare il Mistero col canto è arte raffinata e mistagogica. Nelle celebrazioni liturgiche, infatti, canto e musica non servono per una “Messa in scena”. Non siamo né iconoclasti né musicoclasti, ma cristiani credenti che, attraverso le arti visive e uditive, rendono visibile e udibile l’ineffabile Verbum. Non a tutti, però, è dato saper vedere la luce e goderne o ascoltare i suoni e inebriarsene. Visione e ascolto sono sempre dono e grazia per chi possiede cuore e intelligenza capaci d’accogliere e donare. Bisogna educare mistagogicamente a saper percepire il Mistero celebrato per entrare all’interno dell’atto sacramentale partecipativo orante, con l’intelligenza del cuore e con raffinata capacità espressiva artistica. Il Mistero trinitario incarnato, donato e celebrato, non si può ridurre a una sceneggiata teatrale con diversa o opposta tipologia musicale: quella elevata che può essere splendida ma impropria, o quella banale che è sempre dissacrante e impropria. Siamo convinti che non bisogna cedere mai al vacuo estetismo di una vana ricerca di bellezza senza verità, con facile gioco di stili e di forme. La vera bellezza è ontologica, è trasparenza dell’essere. Oggi, purtroppo, si va sempre più concentrandosi nel cercare una bellezza senza verità, vuota e apparente, artificiale e superficiale. Questo, forse, perché è d’ingenua e facile, ma diseducante, comprensione.

La bellezza del canto più libero non passa mai attraverso le sbarre dell’ipocrisia. Non è lecito mettere a repentaglio la dirittura della mente, l’integrità della fede, la limpidezza del cuore: esse sono realtà con cui non si gioca impunemente. Nella vita tutto passa e di tutto ci si stanca, tranne che delle cose buone e belle da collocare al loro giusto posto. Il tesoro del passato è libertà del futuro, è supporto per ricreare nuovi capolavori, senza stufanti archeologismi e vacue scimmiottature. Per realizzare questo, è necessario possedere i carismi che sono dono dall’Alto e farli fruttificare per l’esercizio dei vari ministeri arricchiti di scienza e sapienza. Una società che non cerca e non vive i valori, spesso attenta a prodotti mediocri e distratta nei confronti di opere che fanno riflettere, che elimina la fatica della ricerca culturale e artistica in modo sbrigativo e artificioso, è una società inesorabilmente condannata alla decadenza e l’uomo diventa lo zimbello delle mode perditempo, mutevoli e ingannevoli. Sì, è vero che il cervo non può insegnare alla tartaruga a correre: ma neanche la tartaruga può impedire al cervo di essere veloce! Anche il gufo, con i suoi occhi notturni ciechi al giorno, non potrà mai svelare il mistero della luce. Il grave pericolo sta quando la sproporzione tra corpo e spirito invade azione e pensiero, vita pubblica e privata: una sproporzione che gli antichi chiamavano ybris, cioè tendenza a espandere senza limiti la potenza propria dell’ego, andando incontro a quella sorta di mancanza di equilibrio da cui deriva disordine personale e sociale che genera incoscienza, stupidità, corruzione e ignavia.

Platone, nel suo Simposio, afferma che, per salvarsi dalla morte ed essere felici, l’uomo deve perpetuare se stesso e questo può realizzarlo se egli “genera nel bello”, sia nell’unione sponsale che fa continuare a vivere nella prole, sia nell’eterna bellezza che unisce all’eterna verità, dove si genera la vera immortalità dell’uomo. La bellezza, dunque, è lo strumento sublime che, unendo l’uomo alla verità divina, lo salva dalla morte. Anche Hegel, definendo il bello come rivelazione sensibile dell’Idea, intravede in esso la via che conduce alla verità divina. Quello che oggi stiamo vivendo sembra essere il tempo della morte della verità e della bellezza. Ci domandiamo: rimarrà in vita solo la terribile verità del mondo con la sua bruttezza di corruzione e di morte? Siamo convinti che, senza fede, non c’è bellezza, ma non c’è bellezza se la fede non è rinvio alla verità suprema che è Bellezza assoluta. Nell’uomo di fede, l’arte del bello è un mezzo per rivelare il Mistero e farlo rivivere all’interno della storia.

Oggi, l’arte musicale rischia di essere penalizzata e di trasformarsi in spettacolo per sopravvivere e mercificare il fenomeno. La finalità della bellezza non deve essere mai idolatrica, perversiva e diabolica, ma simbolica, latreutica e soteriologica. Il credente canta per rivelare l’amore e perché siano rese lode e gloria a Dio che è Amore e Bellezza, e da questa lode e gloria scaturisce la verità che lo salva. In Bach, sommo artista profondamente credente e mistico, la fede cristiana è il mezzo affinché il canto della bellezza viva e viva anche quell’altra forma di fede in cui la bellezza consiste. La musica di Bach è canto sublime della sua fede: Soli Deo gloria! si trova scritto in tutte le sue partiture. Egli non aveva capito soltanto la musica, aveva intuito quale era il vero fine dell’arte musicale: la gloria di Dio! Certo, non a tutti è dato saper vedere la luce e goderne. Non a tutti è dato ascoltare il suono e inebriarsene. Visione e ascolto sono dono e grazia per chi ha un cuore capace d’accogliere e di donare.

Non siamo fuori tema se apriamo il Vangelo di Matteo al capitolo 6, e leggiamo i versetti 1-18 che sempre puntualmente ogni anno la Chiesa maternamente fa proclamare il Mercoledì delle Ceneri, all’inizio della santa Quaresima. Essi ci istruiscono a vivere la verità delle manifestazioni di fede. La motivazione di fondo, che deve ispirare i cristiani nelle loro azioni, è spiegata da Gesù attraverso esempi riguardanti tre pratiche che i primi cristiani hanno continuato a seguire. Inizia con un principio generale (v. 1) seguito da tre esempi concreti: “elemosina” (v.2-4), “preghiera” (v. 5-6), “digiuno” (v. 16-18). Nell’affermazione iniziale, Gesù invita con chiarezza a non teatralizzare le pratiche religiose per mettere in mostra se stessi, per farsi ammirare ed essere lodati dagli uomini, piuttosto che dare a Dio la gloria dovuta a lui solo: così facendo, conclude Gesù, non si avrà la ricompensa del Padre che è nei cieli. Il Maestro, in effetti, non denuncia le azioni fatte in pubblico o, ancor meno, all’interno delle celebrazioni comunitarie, ma le motivazioni interessate e svianti che possono intromettersi. Il leitmotiv è la parola “ricompensa”. La misura dipende dalle intenzioni del cuore, il tesoro è il Regno di Dio inaugurato da Cristo, la ricompensa, che è dono gratuito di Dio, è la vittoria totale sul male: la risurrezione di Cristo. Gli esempi iniziano polemicamente contro il modo di agire degli “ipocriti”, poi si accenna, in tono ironico, alla loro ricompensa e si conclude con l’indicazione dell’atteggiamento proprio dei cristiani: “Tu”, cioè il discepolo, il suo modo di agire e la risposta del Padre.

Per quanto riguarda, poi, la preghiera, il monito del Maestro è chiaro: E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (Mt 6,5-6). Dicendo questo, Gesù non denuncia un atteggiamento simulato e ingannatore, ma fa allusione ai credenti e alle persone religiose. Il rischio, quindi, è quello di cercare d’essere visti dalla gente, di fare belle figure, di pubblicizzare se stessi e il proprio prodotto. Insomma, servirsi della liturgia per ripicche storico-culturali, per propagandare produzioni proprie o altrui, o per essere lodati dagli uomini è idolatria dissacrante e deviante, preoccupante e frantumante.

Mi scrive ancora l’amico filosofo: «È tempo di miseria: di sacralità che se la ride della santità, di idolatrie (mal celate) e programmate, delle Cose di Dio utilizzate come pretesto; di estetismi (e isterismi) non in grado di pervenire alla dimensione contemplativa dell’Arte; di simbolismi che alludono a logiche di potere e dominio e che, avvitandosi su se stessi, confondono e offuscano le possibilità della simbologia autentica: aprire al Mistero, liberandolo dalle componenti magico-sacrali del terrore e della violenza e rivelandolo come Dono, Vicinanza, Amore.

Né iconoclasti, dunque, né musicoclasti, ma figli di Dio Padre che, invasi e guidati dallo Spirito d’Amore del Figlio, cantano, in “sobria ebbrezza”, il Mistero. Ambrogio e Agostino, ciascuno a suo modo, percepiscono che, attraverso il canto della Parola, l’”io” personale viene trasformato nel “noi” della coralità vivente che è magnifica e suggestiva espressione dell’Agape che unisce tutta quanta l’assemblea nel mistero di quel “Corpo d’amore” creato dalla stessa Parola incarnata nel cuore e celebrata nell’in-canto della Divina Liturgia. Cristo è immagine che si vede, Parola che si ascolta, Pane che si consuma all’interno della comunità-comunione ecclesiale che celebra l’incontro salvifico tra l’umanità redenta e il suo amato Signore.

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