Il priore di Dumenza parla di Benedetto da Norcia: un uomo, un monaco, un santo (1^ parte)

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L’11 luglio si è ricordato un grande uomo che il beato papa Paolo VI ha voluto come patrono dell’Europa: san Benedetto. Nel giorno della sua festa vogliamo farne un breve ritratto ponendo ad uno dei suoi ‘figli’, fra’ Luca Antonio Fallica, priore del monastero benedettino di Dumenza, in provincia di Varese, delle domande su un santo che ancora oggi, a distanza di molti secoli, affascina molte persone.
Dalle fonti che abbiamo in nostro possesso, chi era san Benedetto?

“Le fonti che abbiamo su san Benedetto sono molto limitate. Di fatto si tratta del secondo libro dei Dialoghi, che san Gregorio Magno dedica interamente alla sua figura spirituale, e poi della Regola, che Benedetto scrive per degli uomini che intendano vivere una vita monastica cenobitica, cioè nella stabilità di una vita comune. È chiaro, peraltro, che papa Gregorio Magno, nel narrare la vita del Santo, non segue i criteri storiografici moderni.

La sua è un’opera agiografica, dove la preoccupazione principale non è tanto quella di ricostruire l’esattezza di un profilo biografico, quanto di evidenziare un vissuto spirituale e il suo significato per la vita di altri credenti che desiderino cercare, come Benedetto, il volto di Dio. Il fatto che non abbiamo molte fonti biografiche, se può deludere la curiosità storica, ha però il vantaggio di concentrare il nostro sguardo non tanto su dettagli storici, sempre contestualizzati in un determinato periodo cronologico e culturale, quanto sulla proposta spirituale che emerge dalla vita di Benedetto e dalla Regola che egli consegna, che continuano invece a essere significative in ogni epoca, fino ai nostri giorni.

Da questo punto di vista credo che l’inizio e la conclusione dei Dialoghi, una sorta di grande cornice nella quale si inserisce il cammino del santo di Norcia, siano molto eloquenti nel disegnare la sua figura complessiva. All’inizio del cammino spirituale di Benedetto, papa Gregorio colloca un primo miracolo, all’apparenza molto domestico e banale. La sua nutrice, che era rimasta con lui anche dopo l’abbandono degli studi a Roma, chiede in prestito a un’amica uno strumento di coccio per vagliare il grano, che però accidentalmente cade e si rompe in due pezzi.

Allora Benedetto, avuta compassione delle lacrime della donna, prega e miracolosamente il vaglio viene trovato sanato, ‘senza un minimo segno d’incrinatura’, precisa Gregorio. Agli occhi di san Gregorio Magno, e per la sua sensibilità, l’episodio assume un grande valore simbolico: Benedetto torna a unificare ciò che era diviso, a rendere uno ciò che si era spezzato in due. In questo semplice gesto per Gregorio si nasconde e si rivela tutto il significato della vita monastica: deve essere un cammino che tende a unificare ciò che spesso sperimentiamo come diviso, separato, disarmonico, addirittura frantumato.

E ciò che va unificato non è certo un vaglio di coccio, ma il nostro cuore, la nostra vita, la nostra persona. Il monaco di conseguenza non è tanto colui che vive da solo, quanto colui che si impegna, nella grazia dello Spirito Santo, a rendere una, unificata, la propria vita. Vir unus quia amore singularis, dirà la Tradizione, uomo uno perché capace di un solo amore, giacché è soltanto il primato dell’amore, il non anteporre nulla all’amore di Cristo, come si esprime Benedetto nella sua Regola, che conduce a questa unificazione del cuore e a una semplicità della vita. Verso la fine della vita di Benedetto, san Gregorio Magno colloca una sua visione altrettanto significativa: mentre è in preghiera, egli scrive, accadde una cosa davvero meravigliosa, come egli stesso in seguito raccontò.

Il mondo intero, come raccolto in un unico raggio di sole, fu posto davanti ai suoi occhi» (Dialoghi, II, 35,2-3). A questo conduce l’esperienza di Dio. Colui che unifica la propria vita diviene capace di uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo trasfigurato dall’ascolto della Parola e dalla ricerca del volto di Dio. Allora il mondo, anche se è ancora immerso nelle tenebre della sofferenza, dello smarrimento, del peccato, della morte, può essere guardato in modo diverso, già abbracciato e salvato nella luce stessa di Dio e della sua misericordia. Il monaco, e con lui ogni credente, dovrebbe divenire capace di questo sguardo diverso, perché abitato dall’amore di Dio. Credo che in questo modo san Benedetto continui a dire una parola molto attuale al nostro oggi”.

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