Elevato nella gloria

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L’evangelista Luca è il solo a raccontare dettagliatamente il mistero dell’Ascensione di Gesù al cielo: Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo (Lc 24,50-51; cf At 1,11). Nella finale canonica del suo vangelo, anche Marco racconta che il Signore Gesù appare agli undici e dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio (16,19). La risurrezione non è un semplice ritorno alla vita ma a una vita presso Dio. Gesù risorto entra nella gloria trinitaria. Gesù asceso alla destra del Padre sottrae la sua presenza visibile nella storia: ora tocca agli apostoli, alla Chiesa, annunziarlo, testimoniarlo e renderlo presente.

Importante è il racconto di Giovanni dove, al mattino di Pasqua, il Risorto fa sapere ai suoi discepoli, per mezzo di Maria Maddalena, che è sua intenzione salire al Padre (cf 20,17). Il pensiero dell’imminente partenza del Maestro mette i discepoli in uno stato di profonda angoscia e amara tristezza. Essi si troveranno soli nel mondo, il quale li odia perché non gli appartengono. I discepoli devono solo credere fermamente in lui così come credono in Dio. Questa fede li aiuterà a superare l’amarezza della separazione e lo sconforto della solitudine in cui si troveranno, sperduti in un mondo ostile. La partenza da questo mondo aprirà loro la strada per raggiungere la casa del Padre. Secondo Platone, alla morte del loro maestro, i discepoli di Socrate si sentono come privati del padre e destinati a vivere da orfani (Fedone 116°). Gesù, invece, fa la consolante promessa che non lascerà i suoi discepoli come orfani soli e indifesi, ma ritornerà da loro.

Per consolarli, il Maestro fa una triplice promessa: invierà un altro Paràkletos. Il termine greco paràclito proviene dal linguaggio giuridico e indica colui che è “chiamato vicino” a un accusato perché lo aiuti e lo difenda. Significa, dunque, difensore, avvocato, protettore, intercessore. L’opera del Paràclito è molteplice: nei riguardi di Gesù, Egli gli rende testimonianza dinanzi ai discepoli (v 26-27) e lo glorifica (16,14). Nei confronti dei discepoli, rimane in loro (v 17) ed è loro maestro (14,26) e guida (16,13) perché li introduce alla piena comprensione dell’insegnamento di Cristo rendendoli suoi testimoni (15,27).

La glorificazione di Gesù non solo comporterà il dono dello Spirito, ma anche la presenza del Risorto nell’intimo dei suoi discepoli. Verrà, infatti, ad abitare per sempre nei discepoli (v 15-17); ritornerà tra loro (v. 18-21); anzi, Lui e il Padre verranno e prenderanno dimora in colui che lo amerà (v. 22-24). Questa realtà divinizzante è dono ineffabile della Pasqua e della Pentecoste. Lo Spirito di Gesù, che è donato al battezzato, modella il credente configurandolo a Dio mediante l’amore. Il Paràclito, Amore del Padre e del Figlio, dona al cristiano quello stesso Amore che unisce Padre e Figlio. Egli continua l‘opera di Cristo, l‘Emmanuele, il Dio con noi. La sua presenza rende presente Cristo senza confusione o temporaneità: Egli è, infatti, con noi in eterno.

I discepoli di Gesù, che rimangono a fissare il cielo dopo che una nube ha sottratto il Maestro al loro sguardo, sono come i discepoli di Elia che vanno a cercarlo, per monti e per valli. Non sanno rassegnarsi alla distanza di Gesù dai loro occhi, sembra loro che senza la sua presenza il mondo sia caduto nel vuoto.

I due uomini in bianche vesti, interpreti della voce dello Spirito, annunziano ai discepoli: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Tornate sulla terra, andate a Gerusalemme, perché anche la terra è piena del suo Spirito e, rivestiti della forza di quello Spirito, dovete essere suoi testimoni sino ai confini della terra. Il tempo della Chiesa non è nostalgia di un passato che non torna, non è vana attesa di un assente. Gesù li incoraggia dicendo: Ecco io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo. Questa è la verità “spirituale” di cui il segno dell’ascendere al cielo è soltanto la visione esteriore.

Conosciamo anche noi, come i discepoli di Gesù e i discepoli di Elia, la difficoltà a staccarci, in un certo momento del cammino della vita, dalla presenza di coloro che sono per noi guide e padri. Conosciamo più in generale la difficoltà a staccarci da quei momenti nei quali abbiamo fatto esperienza della consolazione, della certezza, della sicurezza del cammino e del senso della vita. Tale conoscenza era dischiusa da una presenza, o da molte presenze: in ogni caso, da ciò che stava davanti agli occhi e che parlava attraverso le immagini familiari. Le immagini, però, proprio perché immagini, passano e il tentativo di trattenerle oltre il momento che è loro fissato produce delusione e dubbio. Non solo la delusione, perché non sono più, ma anche il dubbio, e cioè il sospetto che dall’inizio si sia trattato soltanto di immaginazione, di fantasia o di autoinganno. Quel momento estremo descritto dal brano negli Atti degli Apostoli che vede i discepoli stupiti e immobili guardare il cielo vuoto, ancora possiede uno stupore triste e drammatico. Per un attimo, sembra che ritorni il dubbio dei discepoli di Emmaus che la speranza dei giorni trascorsi sia stata un’illusione, e che il cammino intrapreso con dedizione generosa non conduca da nessuna parte e perciò pregano il Signore di rimanere con loro visibilmente.

È necessaria un’ascensione, cioè, una salita dall’immagine alla verità. L’immagine è nello spazio e nel tempo, e sulla superficie di questa terra. La verità, invece, è nello spirito. O, meglio, la verità è lo Spirito, quello Spirito del quale Gesù dice che non ha né spazio né tempo ma, come il vento, raggiunge improvviso ogni uomo senza che si possa dire da dove venga e dove vada. Credere, perciò, è vedere l’invisibile attraverso la preghiera che rivolgiamo al Dio del Signore nostro Gesù Cristo: Egli stesso, Padre della gloria, ci dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; egli illumini gli occhi della nostra mente, quegli occhi che soli possono comprendere la meta del cammino, la speranza a cui siamo stati chiamati (Ef 1,17-18). Gli Apostoli, nonostante i dubbi, le incertezze e le paure, hanno saputo accogliere il comando di Gesù: Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito santo (Mt 28,19). Grazie a loro, noi, oggi, siamo credenti cristiani.

Anche Paolo, nella Lettera agli Efesini, allude chiaramente all’ascensione di Cristo dicendo che alla discesa sulla terra attraverso l’Incarnazione e in connessione con la Risurrezione corrisponde la sua ascesa al cielo, assunto in gloria col corpo glorificato (cf 4,8-10). Il frammento di una dossologia cristiana primitiva, che canta mirabilmente l’ascesa di Cristo al cielo con il corpo glorioso, è trasmessa dallo stesso Paolo nella prima lettera a Timoteo (3,16):

Egli fu manifestato in carne umana

e riconosciuto giusto nello Spirito,

fu visto dagli angeli

e annunziato fra le genti,

fu creduto nel mondo

ed elevato nella gloria.

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