Papa Francesco prostrato di fronte al divino amore della croce

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L’immagine di Papa Francesco prostrato dà inizio alle celebrazioni del Venerdì Santo. Le sue parole, un inno al divino amore di Gesù e un grido di disperazione per i cristiani perseguitati, le chiudono. In mezzo, la via Crucis di Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, e la tradizionale Via Crucis al Colosseo, una tradizione antichissima della Chiesa di Roma. Tutto, quest’anno, racconta dei cristiani perseguitati.

La notizia del giorno è quella dell’ennesima strage di cristiani in Africa, questa volta in Kenya, e Papa Francesco durante la giornata ha inviato un telegramma per condannare la “brutalità insensata” dell’attacco. Ma le attenzioni sono anche sull’Iraq, dove il Cardinal Fernando Filoni sta celebrando i riti della Settimana Santa con i profughi. Sono anche alla Siria, dove lo Stato Islamico ha ripreso posizioni. Sono anche alla Cina, per un dialogo che Papa Francesco non vuole impossibile. E tutte queste realtà sono rappresentate alla Via Crucis, perché la croce sono chiamati a portarla siriani, nigeriani, iracheni, egiziani, cinesi, persone della Terra Santa.

La tradizione romana della Via Crucis al Colosseo risale addirittura al Pontificato di Benedetto XIV, che morì nel 1758. Fu Paolo VI a riprendere la tradizione nel 1964. Ma poi la Via Crucis del Venerdì Santo acquisì un peso importantissimo con Giovanni Paolo II, sotto il quale iniziarono le dirette televisive. Sarà quasi un segno del destino che quest’anno le meditazioni – tutte centrate sul “custodire” – sono affidare all’arcivescovo Renato Corti, emerito di Novara, che fu l’ultimo a predicare gli esercizi spirituali della Curia con Giovanni Paolo II, nel 2005.

Papa Francesco presiede la Via Crucis, medita in silenzio. E poi conclude con un inno al divino amore, e un grido di disperazione per i cristiani perseguitati. “In te, divino amore, vediamo i nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi. Spesso col nostro silenzio complice. “I nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in te, Divino amore.”

La Via della Croce segue lo schema classico delle 14 stazioni. Il primo a portare il peso della Croce è il Cardinal Agostino Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma, che concluderà anche la processione. Poi, una famiglia numerosa: Alessandro Faustini e Rita Angela Fiorentino con i sei figli: Diletta, Noemi, Letizia, Miriam, Michele, Gabriele. Quindi, una famiglia con figli adottivi: Francesco e Palma Serra con i figli: Rafaela e Vitor – adottati in Brasile. La quarta stazione ancora a una famiglia: Antonio Langella e Maria Grazia Casalino con i figli: Alba e Francesco Langella e Antonio Pagano. Per la V stazione la croce sarà affidata a un malata dell’Unitalsi, Marzia De Michele, accompagnata da Mariella Tranquilli e dal barelliere Mario Puglia.

Nella VI stazione la croce è affidata alle religiose irachene: Suore Domenicane di Santa Caterina da Siena Sr. Sundus Qasmusa e Sr. Susan Sulaiman. La VII stazione coinvolge Philip Astephan e Wael Salibe dalla Siria. L’VIII Leo Udensi e Charles Nwoke dalla Nigeria. La nona Malak Gergis e Maikel Hanna dall’Egitto. Nella decima stazione la croce viene portata da Ivan Zhano e Qi Qiaosu che vengono dalla Cina. XI stazione: Istituto Secolari Maria Santissima Annunziata Sr. Silvana Parmegiani e Sr. Mariangela Addis. XII stazione: Custodi Terra Santa P. Evenzio Herrera e P. Gianfranco Pinto Ostuni. XIII stazione: Religiose dell’America Latina: Figlie di Nostra Signore della Pietà Sr. Francisca Adelaida Rosales Ildefonzo e Sr. Ludy Fiorella Corpus Saldaña.

Tutto il mondo dei cristiani perseguitati è rappresentato. Ogni stazione, l’arcivescovo Corti sottolinea quali sono “i pensieri di Gesù” e racconta quale deve essere “la nostra risonanza,” ovvero il modo di ogni cristiano di vivere la Via Crucis. Ne viene fuori un quadro di cristiani fragili, che hanno bisogno di custodia. La necessità di vincere il male con il bene. Sono toccati i temi della schiavitù, del traffico di esseri umani, la condizione dei bambini soldato, i ragazzi e gli adolescenti “barbaramente profanati.” E’ il volto di una Chiesa ferita, ma in uscita,, pronta ad affidarsi alla Madre o all’amore di Gesù. Una Chiesa che si occupa anche dell’abolizione della pena di morte, e della cancellazione di ogni forma di tortura. Una Chiesa nel mondo, ma non del mondo.

Una immagine cara, quest’ultima, a Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia. Come tradizione, è lui a tenere l’omelia nel giorno del Venerdì Santo, dopo la lettura del Passio. Padre Cantalamessa sottolinea che l’immagine di Gesù flagellato, coronato di spine, deriso e crocifisso è l’Ecce Homo per antonomasia. Ma – ha osservato il Frate francescano – “quanti Ecce homo nel mondo! Quanti prigionieri che si trovano nelle stesse condizioni di Gesú nel pretorio di Pilato: soli, ammanettati, torturati, in balia di militari rozzi e pieni di odio, che si abbandonano a ogni sorta di crudeltà fisica e psicologica, divertendosi a veder soffrire. Non bisogna dormire, non bisogna lasciarli soli! L’esclamazione Ecce homo! non si applica solo alle vittime, ma anche ai carnefici. Vuole dire: ecco di che cosa è capace l’uomo! Con timore e tremore, diciamo pure: ecco di che cosa siamo capaci noi uomini! Altro che la marcia inarrestabile dell’homo sapiens sapiens, l’uomo che, secondo qualcuno, doveva nascere dalla morte di Dio e prenderne il posto”.

Padre Cantalamessa ha parlato delle persecuzioni contro i cristiani, ricorda che “Gesù disse un giorno ai suoi discepoli: Viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio. Mai forse queste parole hanno trovato, nella storia, un compimento così puntuale come oggi.” Fa riferimento esplicito alla strage in Kenya, e sottolinea che c’è il rischio concreto che, nel silenzio generale, tutti noi diventiamo un nuovo Pilato, colui che di fronte alla strage si lava le mani e guarda da un’altra parte.

Ma il Venerdì Santo è l’ora del perdono, e, attraverso il perdono a coloro che lo hanno crocifisso, Gesù ci parla direttamente “con la sua generosità infinita” dicendo: “Io sono morto per potervi dare ciò che vi chiedo. Non vi ho dato solo il comando di perdonare e neppure soltanto un esempio eroico di perdono; con la mia morte vi ho procurato la grazia che vi rende capaci di perdonare. Io non ho lasciato al mondo solo un insegnamento sulla misericordia, come hanno fatto tanti altri. Io sono anche Dio e ho fatto scaturire per voi dalla mia morte fiumi di misericordia. Da essi potete attingere a piene mani nell’anno giubilare della misericordia che vi sta davanti”.

E così la Croce è “la vittoria definitiva del bene sul male,” già avvenuta, e che si manifesterà alla fine dei tempi. Una vittoria che è accaduta nonostante le violenze brutali, e il fatto che si uccida in nome di Dio. Ma – afferma Padre Cantalamessa -“il vero discorso della montagna che ha cambiato il mondo non è però quello che Gesù pronunciò un giorno su una collina della Galilea, ma quello che proclama ora, silenziosamente, dalla croce. Sul Calvario egli pronuncia un definitivo no alla violenza, opponendo ad essa, non semplicemente la non-violenza, ma, di più, il perdono, la mitezza e l’amore. Se ci sarà ancora violenza, essa non potrà più, neppure remotamente, richiamarsi a Dio e ammantarsi della sua autorità. Farlo significa far regredire l’idea di Dio a stadi primitivi e grossolani, superati dalla coscienza religiosa e civile dell’umanità”.

Per questo – conclude il Predicatore della Casa Pontificia – “i veri martiri di Cristo non muoiono con i pugni chiusi, ma con le mani giunte. Ne abbiamo avuto tanti esempi recenti. È lui che ai 21 cristiani copti uccisi dall’ISIS in Libia il 22 Febbraio scorso, ha dato la forza di morire sotto i colpi, mormorando il nome di Gesù”.

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