L’inquietudine del Pianeta. Salgado e Wenders

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“Il sale della terra” (The Salt of the Earth) è un film di Wim Wenders (n. 1945) e di Juliano Ribeiro Salgado dedicato al fotografo brasiliano Sebastião Salgado (n. 1944). Montato tra il Brasile e la Francia nel 2014 è ancora in proiezione nelle sale cinematografiche. Il film è in bianco e nero con alcune parti a colori sulla base delle immagini scattate da Salgado. Da un certo punto di vista, si presenta come un eccellente documentario dedicato da Wim Wenders alla vita del noto fotografo brasiliano: utilizza filmati dello stesso Wenders (che ha seguito Salgado con la cinepresa in alcune campagne fotografiche) e una grande quantità di immagini tratte da mostre e archivi di Salgado.

Tuttavia il film si spinge più volte verso la forma narrativa cinematografica: ad esempio nei dialoghi fuori campo tra i due artisti, che accompagnano le immagini, e nella descrizione del lavoro del fotoreporter brasiliano negli angoli più sventurati e remoti del globo. Qui irrompe la dimensione interpretativa di Wenders che segue appassionatamente la ricerca di inquadrature e figurazioni da parte di Salgado.

Il film ha inizio con le immagini della Serra Pelada: una immensa miniera d’oro a cielo aperto,  collocata nella foresta dell’Amazzonia, in cui migliaia di uomini d’ogni popolo e ceto sociale, in cerca di fortuna, si ammassano sulle scarpate come in un infernale formicaio. Qui possono tornare alla mente: “Il tesoro della Sierra Madre” (1948) di John Houston e “Apocalypse Now” (1979) di Francis Ford Coppola.

Tale prologo apocalittico introduce Salgado e Wenders ad una ricognizione sullo stato attuale del pianeta: inquietante sia dal punto di vista ecologico che da quello socio-economico. Wenders ricorda gli studi di economia di Salgado (1963-1967) che hanno influenzato le sue prime ricerche sociali e antropologiche in Sud America, Africa, Oceania. Dal 1970 Salgado avrebbe posto – durante la dittatura militare in Brasile (1964-1985) – la sua base in Francia e poi in Inghilterra, con la moglie Lélia, in una sorta di esilio dorato. In Inghilterra, nel 1973, sarebbe nata in lui la passione per la macchina Leica e per la fotografia di reportage sociale e ambientale che doveva cambiargli la vita e consentirgli di trovare una finalizzazione alla sua cultura, alla sua arte e ai suoi valori civili.

Cresciuto in una fazenda nei pressi di Aimorés (nel Minas Gerais), Salgado aveva intrattenuto, fin da bambino, un legame profondo con la natura. Scoprì la vocazione di fotografo durante una avventurosa missione in Africa – un continente, dilaniato dalle carestie e dalle guerre – dove assisté ad ogni forma di violenza e di brutalità. Il suo primo lavoro fotografico da free lance lo svolse con l’agenzia Sygma, dal 1974 al 1975, documentando storie in Portogallo, Angola e Mozambico. Nel 1975 iniziò la collaborazione con l’agenzia Gamma, occupandosi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Europa. Nel 1977 iniziò a comporre un saggio fotografico sulle popolazioni indigene dell’America Latina – finite ai margini della storia – terminato nel 1984 e pubblicato con il titolo “Other Americas”. In questo periodo le sue foto venivano diffuse dall’agenzia Magnum Photos, con la quale avrebbe collaborato per 15 anni, dal 1979 al 1994.

Le sue fotogfrafie sono aspre e drammatiche, mai rilassate e abitudinarie: mucchi di cadaveri accatastati nella polvere, esodi di reietti in territori desolati, corpi ossuti dentro i quali si muovono occhi spalancati e imploranti. Accanto alla ricognizione di una umanità in fase di autodistruzione, emerge in Salgado – in funzione compensativa – la coscienza planetaria. Trascorre lunghi periodi con alcune tribù della Nuova Guinea e dell’Amazzonia per testimoniare la sopravvivenza, nel XXI secolo, di forme di civiltà estranee alla globalizzazione. Comincia così una progressiva evoluzione nel modo di osservare il mondo; la scoperta del nesso fra crisi sociale ed economica mondiale e degrado e distruzione dell’ambiente naturale. Il film dà spazio a un elemento etico e storico, per questo “Il sale della terra” diventa  un’opera corale, in cui più voci si alternano intorno a quella continua e ferma del protagonista nel gridare delle immagini.

Dal 1984 al 1986, Salgado lavora ad un progetto documentaristico sul problema della carestia in Africa, in collaborazione con l’associazione “Doctors without Borders” (Medici senza Frontiere) e pubblica 2 libri, editi in Francia (“Sahel, L’homme en détresse”) e in Spagna (“Sahel en fin del camino”). La comunicazione fotografica di Salgado fornirà un suppporto decisivo all’associazione impegnata in Rwanda, in Congo, in Etiopia e anche nell’ex Jugoslavia nei primi anni ‘90. 

In paralleo al reportage di guerra, dal 1986 al 1992, confermando la vocazione saggistica della sua fotografia Salgado viaggia in 23 paesi per un progetto fotografico che intende illustrare la fine dell’epoca industrialista del ‘900 e l’inizio di una contraddittoria globalizzazione. Il progetto culmina con la pubblicazione in 8 paesi dell’opera “Workers: an archeology of the industrial” (1993) con più di 100.000 copie vendute ed esposizioni in più di 60 musei nel mondo. Salgado rinnova la tradizione e l’impegno della grande fotografia di reportage del primo ‘900, confermando la forte mediazione culturale del suo lavoro di fotografo lontanissimo dalla foto commerciale e dal reportage meramente cronistico.

La sequenze finali de “Il sale della Terra” riportano Sebastiaõ Salgado nel luogo in cui ha trascorso la sua infanzia: un paesaggio arido e desolato, in cui la siccità ha divorato l’intera vegetazione. Salgado, con la moglie Leila, decide di tentare il rimboschimento dei suoli intorno alla fazenda paterna: una immensa opera di riforestazione e di ripristino del rapporto fra l’uomo e la natura. Da questa sensibiltà ambientalista nascerà il libro “Genesi” che raccoglie le foto di una spedizione lunga otto anni nei luoghi incontaminati, in quei “santuari” del Pianeta in cui l’uomo è ancora immerso nella vita animale e nei cicli della natura. Una selezione delle immagini di “Genesi” è stata esposta all’Ara Pacis nel 2013. Le sequenze finali del film mostrano la resurrezione del paesaggio di Aimorés a cui più di due milioni di alberi restituiscono la bellezza primigenia: la serenità del piantatore cancella la barbarie dell’umanità.

Nella foto: Sebastiaõ Salgado, “Profughi Tutsi”, 1994.

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