Bonum est confiteri Domino

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E’ bello rendere grazie al Signore

e cantare al tuo nome, o Altissimo,

annunciare al mattino il tuo il tuo amore,

la tua fedeltà lungo la notte,

sulle dieci corde e sull’arpa,

con arie sulla cetra.

(Sal. 92 (91) v. 2-4).

Se dovessi commentare con poche parole i versetti di questo Salmo, direi così: “Il canto della fede, nell’incanto dell’amore”. Il salmista celebra la bontà della lode che è l’esaltazione dello splendore dell’essere in tutte le due dimensioni: estetica e morale, bellezza e bontà, verità e soavità. Il ringraziamento implica sia la gratitudine per i benefici ricevuti, sia l’ammirazione contemplativa, espressi attraverso il canto per l’Altissimo, cioè per la suprema trascendenza di Dio. L’oggetto della lode in canto è per la fedeltà amorosa, gratuita e stabile di Dio che permette al credente di avere fiducia in Lui e nella vita. Il salmista, poi, mette in risalto due aspetti cultuali della lode: quello cronologico, esplicitato attraverso il mattino e la notte, e quello musicale declinato attraverso gli strumenti fondamentali dell’orchestra del tempio: l’arpa a dieci corde, il mormorio melodico della voce e la lira. Voci, musica, testi, atmosfera, tempi e melodie inneggiano, nello stupore di fede dell’orante, alla fedeltà amorevole con cui Dio opera nel cosmo e nella storia.

Cicerone, offrendoci la più bella e sintetica definizione della “cantabilità” della parola, dice che il canto è insito nel linguaggio come un embrione: Est autem in dicendo etiam quidam cantus obscurior (Orator XVIII,57). Nella parola parlata vive quel canto piuttosto indefinito quando le parole sono pronunziate con la massima intensità espressiva. Da qui nasce la magica formula chiamata casmes, in-cantum che esprime quel “cantar dentro” che è, appunto, “incantesimo” della parola! Quest’incantesimo raggiunge il suo vertice quando si ama in entusiasmo. Canto e amore con-vivono in duetto di mirabile simbiosi. Il canto è raffinatissima ed elevata espressione d’amore tanto da far dire a sant’Agostino: Cantare amantis est! E poi, da questa frase, venne modulata l’altra di sapore agostiniano: Qui bene cantat, bis orat! E’ verità assodata che questa sinfonica comunione ha origine e inesausta sorgente in Dio che si è rivelato a noi come Amore e Amore donato! Quest’Amore eterno e infinito, ripete san Paolo nelle sue lettere, è stato riversato nei nostri cuori che, infiammati d’amore, cantano all’Amore, amando!

Nella vita del credente, l’esigenza del canto sgorga dalla pienezza del cuore e dall’esperienza di fede amata e vissuta. Rendere grazie al Signore e cantare all’Altissimo è manifestazione viva di entusiasmo interiore che accende il cuore e dà voce alla profezia e alla lode, alla gratitudine e alla meraviglia, alla gioia e al dolore, alla supplica e al pentimento, alla contemplazione e all’estasi. L’uomo biblico, che fa esperienza di Dio, è sempre creatura entusiasta perché è capace d’amare: dal canto d’amore di Adamo all’Amen dei redenti nell’Apocalisse, dall’appassionata difesa di Dio da parte di Mosè e dei profeti al Magnificat di Maria, dai duetti d’amore di Lui e Lei nel Cantico dei Cantici all’ebbrezza della Chiesa a Pentecoste, tutto è un fiume melodico di purissima lode e gratitudine.

Il Santo Vangelo ci tramanda che Gesù, assieme agli apostoli, cantò i salmi tradizionali della Cena pasquale: E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi (Mt 26,30). San Luca, negli Atti degli Apostoli, ci riferisce che Paolo e Sila, mentre erano in prigione, verso mezzanotte, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli (16,25). San Paolo inserisce il canto spirituale all’interno delle catechesi tipicamente battesimali e lo fa sgorgare da quel cuore in cui s’incarna, in sovrabbondanza, la parola di Dio: La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza, istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori (Col 3,16). Non sappiamo con chiarezza a quale genere musicale appartenessero gli psalmòi, gl’hymnoi e gli odài. Sicuramente indicavano quelle forme vocali espressive che allora erano usate. Potrebbe anche significare la ricchezza e la varietà dei diversi generi musicali all’interno della molteplicità delle culture. San Paolo ci assicura che la Parola di Dio, accolta nella profondità del cuore, portava i suoi frutti in tutti i membri della comunità, attraverso l’edificazione reciproca raggiungendo la sua forma particolare nel canto comunitario.

Questo canto non si riduce a un’espressione artistica qualsiasi ma è quel canto ”spirituale” che è “santo” e che caratterizza sia la preghiera sia la stessa comunità orante. Il termine “spirituale” non equivale a un generico “sacrale” di tipo pagano, ma definisce la particolare esperienza dello Spirito che i battezzati hanno in dono di vivere. Anche la parola “cuore” non va letta in senso psicologico-sentimentale ma determina il centro profondo nel quale l’uomo si determina alla conoscenza e alla decisione. Il “cuore” è il luogo dove lo Spirito raggiunge l’uomo. In forza di questa epiclesi, l’estetica del generico canto “sacro” si trasfigura in specifico canto “santo”. Questo tipo di canto modula musica rispondente al discorso Logos-Pneuma-Melos. È questo lo statuto sonoro che fa “santo” il canto liturgico e gli permette di assumere la sua particolare identità “sacramentale”.

Sant’Ignazio, secondo vescovo della Chiesa d’Antiochia dopo san Pietro, nella sua Lettera agli Efesini, ci offre espressioni dense di significato ecclesiologico: “Perciò in vostra concordia e in unisona Agape Gesù Cristo è cantato. E divenite, a uno a uno, coro, così che, essendo unisoni in concordia, prendendo in unità la modulazione di Dio, cantiate in una sola voce per Gesù Cristo al Padre… Ciascuno di voi si studi di fare coro” (4,1-2). Il “formare coro”, dunque, non è solo espressione del semplice stare insieme, ma impegno per realizzare comunione. Soltanto nello Spirito e per lo Spirito l’assemblea liturgica può “fare coro”, cioè, Chiesa-Agape.

In effetti, nel cantare insieme, l’“io” personale è trasformato nel “noi” della coralità vivente. Questa concordia nell’unisona Agape, unisce quelli che cantano insieme in un cerchio luminosissimo che è espressione estetica, atemporale e trasfigurata della fraternità cosmica. Il miracolo del cantare in concordia consiste nell’accordare sinfonicamente uomini di ogni razza, di ogni lingua e di ogni cultura in una sorta di Pentecoste d’amore universale. L’arte della vera coralità liturgica deve possedere questo valore “sacramentale” perché il vero orante liturgico, che canta unito a Cristo, palpita all’unisono con il cuore del Christus totus. Il canto liturgico è perciò canto sinfonico perché la Chiesa celeste e quella terrestre, la Chiesa locale e quella universale si dilata oltre i confini di uno spazio determinato e abbraccia tutti i credenti della terra intera. Travalicando i limiti del tempo, la comunità che prega sulla terra si sente una cosa sola anche con i beati che vivono nell’eternità (cfr. R. Guardini, La realtà della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1989).

L’assemblea che celebra cantando realizza, nella varietà delle diverse voci, l’armonia dell’unica Agape e manifesta la sinfonia dell’essere insieme nella molteplicità. Sappiamo che il “musicale”, per sua natura, è insieme polifonia e unisono. La polifonia del coro è l’espressione della diversità nell’unità: Pur essendo molti, siamo un corpo solo (1Cor 7,17). L’unisono dell’assemblea è l’espressione dell’unità nella pluralità: Un solo corpo, un solo spirito… un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo (Ef 4, 4.5). Il Logos-Pneuma-Melos, nella celebrazione dell’Agape, ha, come fine ultimo e meta da raggiungere, l’edificazione della comunione umana universale e cosmica.

Il canto dei credenti, dunque, non è espressione di vuota spensieratezza o di superficiale ilarità, non è nemmeno manifestazione di puro estetismo fine a se stesso, non è risuono di emozioni soggettive né ricerca di echi di un Dio lontano e sconosciuto. Il canto di chi crede è l’espressione di un cuore colmo di stupore e di gratitudine per la manifestazione dell’amore con cui Dio crea e redime. I cristiani cantano perché Cristo risorto vive in loro e li salva. Cantano perché percepiscono di essere inseriti nell’azione salvifica di Dio nella luce della sua epifania. I credenti in Cristo cantano, sia quando si trovino nella gioia, sia quando soffrano nel pianto, perché il loro cuore è colmo di speranza. Lì dove il canto muore, cedendo il posto al mutismo, lì si spegne anche la speranza. La libertà che spera, canta sempre l’amore che crede.

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