Meeting di Rimini: l’uomo della periferia canta

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“E’ la prima volta nella storia del Meeting che una personalità non cattolica tiene la relazione sul tema del Meeting”: davanti a più di 10.000 persone Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, così ha presentato Aleksandr Filonenko, fisico nucleare e docente di Filosofia all’Università di Char’kov in Ucraina, che ha iniziato il suo intervento affermando:

“La periferia non è una questione geografica, è questione di un incontro che ci rende vivi” proprio nel giorno dell’anniversario della festa dell’indipendenza dell’Ucraina. Filonenko ha sottolineato che il nome stesso del suo paese d’origine significa letteralmente “ciò che si trova in periferia…

La periferia è quel luogo in cui Gesù ci si fa incontro, affinché dalla stanza soffocante dell’abbandono e della solitudine possiamo uscire nell’universalità, nella cattolicità. La periferia è più simile alla riva dell’oceano, all’apertura che rende possibile il contatto con il mistero”. Perciò quando nella vita irrompe come un lampo la Presenza che ci capovolge, tra spazi anonimi in cui il potere agisce in nome della sicurezza “accade un avvenimento e può, se noi lo vogliamo, accadere un incontro che dà l’avvio a un nuovo inizio di umanità. La periferia come speranza di un inizio coincide con il luogo della riscoperta della persona”.

Eppoi Filonenko ha delineato i tratti dell’uomo protagonista di questo nuovo scenario: “E’ un uomo che chiede a Dio la vulnerabilità, la libertà dalla paura e il coraggio della debolezza di cui parla san Paolo”. L’uomo che domanda è un uomo che prega, paziente, consapevole che “ci si può vantare delle tribolazioni solo nella coscienza che dietro ogni tempesta c’è Cristo”. L’uomo della periferia è una persona che ringrazia ed accoglie tutto come un dono e che sperimenta nella gratitudine il regno di Dio.

Da tale sentimento di riconoscenza nei confronti del Creatore nasce un uomo che canta, che eleva al Signore un canto di lode e di ringraziamento. Quindi la prima forma di teologia è l’inno: “Uno dei doni più grandi che mi ha fatto il Movimento è stato evidenziare, in una società in cui si canta sempre meno, quanto sia importante cantare. Il canto non è solo un’arte, ha a che fare con la nascita del discorso su Dio. Se non cantiamo, i nostri discorsi sono solo parole”.

L’uomo che canta è ancora un testimone che “desidera condividere il fuoco della presenza” e un uomo che giudica la realtà con gli occhi del Maestro. Così, suggestivamente, il filosofo spiega l’inedito accostamento tra canto e giudizio: “L’incontro con un avvenimento autentico, incarnandosi nella lingua del canto, cerca il consenso e il giudizio. Alla periferia nasce un uomo che giudica, che è capace di dare un giudizio sull’esperienza dentro la comunità raccolta nel lampo dell’avvenimento e che canta il suo inno armonioso”.

Ma tra l’uomo che canta e l’uomo che giudica, c’è l’uomo che testimonia: “Il testimone è colui che porta fuori il fuoco dell’avvenimento nell’incontro con quelli che sono vulnerabili e raccoglie la comunità di gente che esulta”.

Infine il paragone è spontaneo: l’uomo della periferia è assimilabile al “giardiniere che vive dell’amore di Dio e così coltiva umilmente il mondo e costruisce una cultura”. Nella figura del giardiniere si affievolisce anche l’opposizione tradizionale tra natura e cultura… Davanti ai germogli di quel qualcosa di nuovo, si può solo servire, senza fare calcoli, senza impossessarsene ma sperando”.

Sul tema della periferia umana, in mattinata si era discusso su ‘Immigrazione e bisogno dell’altro’ con monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale (Palermo), monsignor Silvano Maria Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ONU, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di stato maggiore della Marina militare, Sandro Gozi, sottosegretario per le Politiche e gli affari europei, perchè è necessario abbandonare il concetto di immigrazione come problematica ad esclusivo carico delle autorità e senza alcuna responsabilità da parte dei cittadini, dall’altro essa va inquadrata in un contesto globale, superando visioni localistiche troppo limitanti.

Secondo l’arcivescovo di Monreale sono tre gli atteggiamenti ricorrenti in particolare tra gli italiani sul tema migratorio. In primo luogo, c’è chi mostra un atteggiamento pregiudizialmente ostile e ritiene che le risorse che lo stato investe per gli immigrati, debbano essere destinate piuttosto ai cittadini italiani, specie se disoccupati o socialmente disagiati.

Al tempo stesso c’è chi è aperto agli stranieri ma in un’ottica del tutto utilitaristica, nella misura in cui essi si prestano a quei lavori di manodopera che gli italiani non vogliono più fare: questo atteggiamento, tuttavia, si presta notevolmente a fenomeni di sfruttamento, specie in campi come l’edilizia o l’agricoltura. Però l’atteggiamento sostenuto dalla Chiesa è quello dell’accoglienza incondizionata e disinteressata nei confronti di tutti i ‘fratelli in difficoltà’.

Da parte sua, monsignor Tomasi ha sottolineato la portata globale del fenomeno migratorio, il cui impatto è di gran lunga superiore a quello percepito: in tutto il mondo, infatti, una persona su sette è emigrato all’interno del proprio paese o all’estero. Altra realtà critica sottolineata dall’Osservatore della Santa Sede presso l’ONU è il gap esistente tra il ‘corpo del diritto’, che dovrebbe tutelare i diritti dei migranti e la sua effettiva applicazione.

Inoltre occorre sottolineare la presentazione di due mostre da vedere: ‘Tolstoj il grido e le risposte’ è una mostra che nasce dal desiderio di presentare l’uomo, lo scrittore e il pensatore, di comprendere l’attualità di una posizione umana che ha fatto e continua a far discutere.

Valentina Alekseeva, conservatrice del museo Tolstoj di Mosca ha ricordato che “a cent’anni dalla morte il mondo ha ancora bisogno di tornare alle problematiche sollevate dallo scrittore russo, in quanto lo scopo del suo pensiero non è quello di dare risposte definitive ma aprire domande su di noi”. La seconda mostra presentata è stata dedicata allo scrittore e saggista francese Charles Péguy e la sua ‘anima carnale’.

Ed infine è stato molto interessante l’incontro con il prof. Joseph H.H. Weiler, presidente Istituto Universitario Europeo, sul testo biblico, che ha preso in considerazione tre casi. La scelta del professore ha  contemplato l’episodio riguardante le figlie di Lot (Gen. 19, 1-38). “Si tratta di figure e brani periferici, e lo conferma anche lo stile del testo: secco, poco connotato sul piano dell’interpretazione valoriale. Lascia spazio alla speculazione del lettore”.

Il professore ha aperto un dialogo con il pubblico circa la comprensione più profonda del testo, fino a costruirne l’interpretazione più umana e ragionevole: le due figlie hanno solo apparentemente ingannato il padre, coinvolgendolo nell’incesto narrato; c’è “un fattore altro, misterioso, ma ragionevole che muove il comportamento dei protagonisti. Peggiore dell’incesto è il male della mancanza di una discendenza”.

Quindi, nel disegno della salvezza, non c’è la condanna, ma la giustizia anche non immediatamente comprensibile all’uomo.  Con lo stesso stile argomentativo, Weiler ha proposto la figura di Tamir, la nuora di Giuda (Gen. 38, 1-30) e, da diversi passaggi dell’omonimo libro, la figura di Ruth, fino all’incontro con Booz:

“Figure periferiche, oltre alle figlie di Lot di cui non sappiamo neppure il nome, sono anche Ruth, la moabita, e Tamar, madre di Peres, ma entrambe sono citate nella genealogia del re Davide e quindi di Gesù, chiamato Cristo. Nel Dio della Bibbia non c’è un per sempre, ma c’è sempre il perdono, la possibilità della riabilitazione”.

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