Conoscere è amare

Condividi su...

La “conoscenza” non è superficiale atto sensoriale, ma intimità d’amore donato e accolto: qui è nascosto l’infinito mistero della salvezza. La vita eterna donataci da Gesù consiste nel fatto che il nome di ciascuno di noi è scolpito sulla roccia della conoscenza che egli ha per noi; attraverso questa conoscenza ci possiede e, nel possederci, chiama ciascuno per nome, e noi conosciamo la sua voce distinguendola dalle altre. La sua voce raggiunge così le radici dell’essere: ci possiede rendendoci liberi e ci rende liberi possedendoci. La conoscenza di Gesù, inoltre, porta l’uomo ad abitare all’interno dell’ovile della libertà evangelica, lì dove il vero recinto, il vero vincastro e la vera autorità sono l’ascolto attento e appassionato di quella Voce che ci rende tutti, in Lui, un solo gregge sotto un solo pastore (cf Gv 10, 16), cioè, una comunità viva di fede che ha un cuore solo e un’anima sola (Atti 4, 32).

Il Padre ama il Figlio perché il Figlio offre la sua vita per le pecore (cf Gv 10, 17), in questo divino offertorio si rivela pienamente l’amore di Dio per noi. Ecco il modello di ogni servizio e di ogni autorità, sta qui la misura della reciproca conoscenza e appartenenza. La vocazione cristiana è, dunque, conoscenza e servizio d’amore che portano alla donazione sacrificale.

Nella celebrazione dell’Eucaristia, tutto questo è misticamente perpetuato perché il Pastore si offre come Cibo per essere mangiato come Verbo e Pane di Vita trasformandoci nel suo Corpo.

Nell’ultima Cena, il Maestro e Signore, dopo l’invito a prendere il Pane per mangiare e il Vino per bere, agli Apostoli dà il comando: Fate questo in memoria di me. Per attualizzare questo mandato bisogna vivere lo spirito del gesto simbolico d’umiltà di nostro Signore quando, alla lavanda dei piedi, indossa il grembiule dell’Agape, la “strana” veste che lo identifica al servo. Quel gesto e quella veste sono evocati da Paolo nell’inno della lettera ai Filippesi: Spogliò se stesso assumendo la forma di servo (2,7). Quel gesto e quella veste sconvolgono e sconcertano i discepoli perché richiamano il gesto d’ospitalità cui era addetto soltanto il servo. Eppure, quel gesto e quella veste diventano elementi simbolici di altissimo e profondo amore del “Servo sofferente” che insegna ai suoi discepoli il grande comandamento nuovo: amatevi gli uni altri come io ho amato voi. Gesù, infatti, ci ha amato sino alla fine. La lavanda dei piedi non esprime soltanto umiltà, ma anche “passione”, perché è il gesto di chi dona la vita, e chi dona la vita, dona tutto se stesso.

Pietro, spinto dai moti della natura dettati dall’eros, reagisce al vedere quel gesto “sconveniente” del Maestro. Egli, in quel momento, non è capace di capire, perché comprenderà in seguito, quando si realizzerà l’epilogo dell’Agape. Pietro, se non entra nell’oscura e misteriosa potenza di quell’amore il cui segno visibile non è il potere, ma il servizio, non potrà mai conoscere il suo Signore né, tantomeno, capire i gesti del suo Amore. Intanto, in quel momento, egli rifiuta l’umiliazione del Servo sofferente. Come il Maestro e Signore ha lavato i piedi ai discepoli, anche i discepoli devono lasciarsi lavare i piedi a vicenda: Avete capito quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi lavatevi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi (Gv 13, 12-15). L’insegnamento è chiarissimo: il discepolo imiterà l’esempio dell’umiliazione del Signore solo quando si farà servo dei fratelli per amore. Conoscere, accogliere e vivere diventano amore che salva. Soltanto in quest’alveo d’amore possiamo celebrare in purezza di cuore e fervore di spirito quell’Eucaristia in cui sempre dovrà riconoscersi la comunità dei veri credenti in Cristo.

O la comunità cristiana recupera, con la conoscenza evangelica, la vera coscienza di sé e la prassi dell’Agape, o la sua memoria cultuale è in contraddizione diretta con la Parola da cui essa, come Chiesa-Corpo di Cristo, trae il diritto della sua esistenza (cf Gv 13, 1-17). Soltanto quest’elevato servizio d’amore è capace di creare nella Chiesa di Cristo unità in comunione e concordia in fraternità. Unità di comunione invisibile che è comunione alla stessa Unità trinitaria. Unità di comunione visibile che è quella capace di convincere il mondo che Gesù è l’inviato del Padre e che il Padre ama tanto gli uomini quanto ama il Figlio suo (cf Gv 17, 21-23). L’unità di comunione fonda la comunità credibile della Chiesa. L’amore di comunione nell’unità è il solo segno riconoscibile della Chiesa, Corpo-Sposa di Cristo.

San Paolo lo afferma con chiarezza quando, scrivendo alla comunità di Efeso e facendo appello all’unità, la esorta a comportarsi in maniera degna della vocazione che ha ricevuto cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace, attraverso l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza e la concordia (cf Ef 4, 1-6). Paolo, poi, descrive i carismi dell’insegnamento e dice che Cristo ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4, 11-13). Dal sacrificio della croce nasce, dunque, la Chiesa: il Cristo totale, Capo e membra che costituiscono il suo Corpo. E’ questo il fine fondamentale di ogni ministero: edificare il Corpo di Cristo attraverso la fatica della sofferenza nel dono di sé.

Il mondo potrà anche conoscere un suo Dio conforme alle intuizioni del proprio intelletto, ma un simile Dio è un Dio senza gloria, ed è senza gloria perché è senz’amore, ed è senz’amore perché è senza croce. Nell’elevatio Crucis del “Servo sofferente”, s’innesta l’exaltatio Gloriae del Cristo glorioso. La profonda e feconda conoscenza, come dono totale di sé, raggiunge la piena intimità attraverso la Crux-Gloria. La Gloria non è vista come premio della croce, ma come esaltazione-glorificazione della stessa Croce.

La bivalenza della Croce sta tutta qui: essa è morte secondo la carne, ma secondo lo spirito è risurrezione e gloria per la perenne presenza di Cristo che realizza il fine per cui ha dato la vita: essere una cosa sola in Lui, come Lui è col Padre. L’unità misteriosa e perfetta tra i discepoli sarà dono di grazia del Padre ed effetto della conoscenza del Figlio nella comunione con Lui (cf Gv 17, 6, 11).  L’”essere uno”, San Paolo lo esprime con un suo sublime cantico: Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, e noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1Cor 10, 16-17).

Gesù ha sempre promesso lo Spirito e ha annunziato la sua venuta. Dopo la Risurrezione si può dire che non parli d’altro. Nel discorso d’addio, ci rivela qual è la fonte della vera conoscenza: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui…Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14, 23. 25-26). Lo Spirito è per essenza Dono: dal Padre al Figlio, dal Figlio al Padre e dal Padre per il Figlio a quanti lo vorranno conoscere e accogliere diventando figli di Dio. Come si può celebrare il “credo” della conoscenza e dell’amore con la bocca tappata e i gesti senza vita? Conoscere è amare per cantare l’esaltante avventura della nostra divinizzazione.

Free Webcam Girls
151.11.48.50