La Santa Sede a Ginevra. Il bene comune come agenda internazionale

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Il dovere della solidarietà. Il diritto internazionale da applicare oltre gli interessi delle grandi multinazionali. I diritti umani dei migranti. In tre interventi alla 26esima sessione ordinaria del Consiglio dei Diritti dell’Uomo, l’Osservatore Permanente della Santa Sede a Ginevra ha delineato l’impegno vaticano. L’agenda internazionale della Santa Sede è il bene comune. Il fine, quello dello sviluppo umano integrale. Il mezzo, l’attività diplomatica della Santa Sede, che mette in chiaro i principi e sensibilizza le nazioni.

Lo scorso 13 giugno, Silvano Maria Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, ha sottolineato al Consiglio dei Diritti umani che, in questo tempo di crisi economica, in un momento di difficoltà e sofferenza per tutti, “il principio e la pratica della solidarietà” sono “l’unico mezzo efficace per uscire dal Circolo vizioso della povertà, del profitto a spese altrui e dei conflitti nel mondo”. Non c’è solo il magistero della Chiesa, i tweet di Papa Francesco a sottolinearlo. Tomasi cita anche il rapporto dell’Esperto indipendente sui Diritti Umani e la Solidarietà internazionale, il quale si è focalizzato sull’applicazione di questo principio nelle relazioni tra gli Stati e ha osservato che “una componente fondamentale del dovere degli Stati di fornire e cercare la cooperazione e l’assistenza internazionale nell’attuazione dei loro obblighi rispetto ai diritti umani”.

Ma attenzione, dice Tomasi. Se l’interdipendenza è evidente in tutti gli ambiti, la “mera cooperazione internazionale può essere, per esempio, percepita come una forma di cura palliativa politica, che non affronta mai le cause che sono alla radice degli squilibri tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, né elimina gli ostacoli strutturali che generano povertà nel mondo”. Eppure, aggiunge l’Osservatore Permanente, “la piena applicazione del principio di solidarietà può spostare l’interesse dalla cooperazione basata su una logica del profitto che un paese trae da un altro a una cooperazione basata sull’aiuto reciproco in uno spirito di fratellanza esercitato in maniera incondizionata”.

Tomasi fa anche esempi in cui la solidarietà funziona. L’esperto indipendente parla di solidarietà preventiva come risposta per le catastrofi legate al clima, l’ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine ha lanciato una campagna di sensibilizzazione,chiedendo alle persone di riflettere su questa piaga sociale e di evitare qualsiasi coinvolgimento economico in affari basati su tali attività illegali.

Ma ci vuole di più, una solidarietà strutturale, che non punti solo sulla cooperazione occasionale, ma sulla costruzione di una società.

Una società che, ad esempio, rispetti i diritti dei migranti. Tomasi ne ha parlato in un altro intervento. Ha sottolineato i benefici della migrazione, ma “resta però un lato tragico e doloroso di questa esperienza: il traffico di persone, l’abuso di lavoratori domestici migranti e il lavoro in schiavitù”. E i minori non accompagnati sono una delle categoie che richiede maggiore protezione da parte della comunità internazionale, e sui quali si concentra Tomasi.

L’Osservatore Permanente snocciola cifre. “Nel 2011 i minori non accompagnati che hanno fatto richiesta d’asilo in Europa sono stati 12.225. Rappresentavano tutti i luoghi problematici del Medio Oriente e dell’Africa. Sintomatica è anche l’esplosione del numero di bambini migranti che viaggiano soli, sperando di attraversare il confine per entrare negli Stati Uniti. L’ondata di migranti bambini ha visto un aumento costante dal 2008 a oggi, sicché nel 2013 i minori non accompagnati fermati sul confine tra Stati Uniti e Messico sono stati 38.883, e le autorità prevedono che nel 2014 la cifra raddoppierà, superando i 70.000”.

La loro situazione è critica. I bambini sono esposti “ad abusi sessuali, alla fame, a mutilazioni quando cadono, e perfino alla morte quando affondando le imbarcazioni su cui viaggiano oppure si perdono nel deserto”. Tomasi cita il problema degli indocumentados, bambini che non possono ricongiungersi ai genitori perché questi sono senza documenti, salito alla ribalta quando il presidente americano Obama è andato in visita da Papa Francesco. E cita anche la necessità di fuggire da un ambiente “in cui oltre il 90 per cento delle vittime di omicidio sono giovani maschi adulti e in cui oltre il 90 per cento di quanti commettono un omicidio sono anch’essi giovani maschi adulti: entrambi sono spinti a fuggire per poter sopravvivere”.

Tomasi chiede al Relatore speciale di aiutare i governi a trovare una soluzione. Serve, infatti, una autorità super partes, per fare un piano di intervento che vada oltre gli interessi degli Stati e protegga i bambini in movimento, una “emergenza umanitaria che esige rimedi immediati”.

Anche in questo caso, sottolinea Tomasi, “può essere efficace la solidarietà internazionale, aiutando ad affrontare la violenza urbana che è alla base dell’esodo infantile. Anche i canali legali per il ricongiungimento delle famiglie eviteranno che i bambini ricorrano a vie insicure, dove il loro sfruttamento diventa quasi inevitabile. I valori umanitari suggeriscono anche la creazione di un qualche meccanismo di regolarizzazione che possa consentire ai bambini di vivere con i propri genitori. Questo diritto umano naturale di certo ha la priorità sulle violazioni amministrative delle norme sui confini”.

E le norme internazionali devono prevalere anche per quanto riguarda i diritti umani dei lavoratori. Tomasi ne ha parlato l’11 giugno, commentando e plaudendo al documento che propone le Linee Guida su affari e diritti umani “Protect, Respect and Remedy”. Bello, dice, ma c’è bisogno di sforzi precisi per “effettivamente diffondere questi principi a tutti gli attori in gioco”, in modo da costruire una cornice ancora più forte di affari fatti nell’ambito dei diritti umani. Ma “nonostante gli sforzi per implementare le Linee Guida”, restano varie sfide.

Tomasi denuncia “l’abilità della corporations internazionali di sfuggire parzialmente alla territorialità e delineare per loro stesse una esistenza ‘a metà’ tra legislazioni nazionali e particolari”. E questo è “giustamente una delle preoccupazioni delle Comunità internazionale”, perché “la loro mobilità” a livello di nazione, organizzazione, produzione e flusso finanziario “permette loro di navigare sulle legislazioni nazionali, avvantaggiandosi di un arbitraggio regolamentare e scegliendo le giurisdizioni che possono loro offrire il miglior ritorno in termini di profitto”.

Altra preoccupazione riguarda la complessità delle corporations, che rende difficile la supervisione su di loro. “L’assenza risultante di una trasparenza robusta e precisa rende molto difficile misurare la loro aderenza a regole e legislazioni”, e dunque “le violazioni dei diritti umani avvengono troppo spesso a causa di negligenza riguardo conseguenze che sarebbero state prevedibili se qualcuno se ne fosse almeno preso cura”. E queste negligenze non sono casuali, ma sistemiche, “il risultato razionale di una sistematica esclusione dei vulnerabili dalla logica delle attività economiche”.

Tomasi ricorda la strage dell’industria Rana Plaza in Bangladesh, che è “solo la punta dell’iceberg”, perché “la violazione dei diritti umani nel posto di lavoro è una esperienza quotidiana per decine di migliaia di persone nel mondo, specialmente in legislazioni con poche normative sul tema”. Tomasi chiede una revisione dell’accesso ai risarcimenti per le vittime quando queste sono causate da una mancanza di rispetto dei diritti umani per ragioni di business.

L’Osservatore Permanente poi sottolinea un altro problema: il fatto che le corporations transnazionali giocano sempre più un ruolo di attore internazionale con più centri di operazioni. Sono così grandi, hanno così tanti lavoratori, fanno girare così tanti soldi che diventano non solo un attore nel mercato, ma qualcuno in grado di “modellare significativamente leggi e regole, mercati e società” a loro uso e consumo. “Sia la Chiesa che la comunità internazionale asseriscono che oltre il legittimo profitto, le imprese devono lavorare per il bene comune”, e queste imprese “devono assumersi la loro parte di responsabilità riguardo il bene comune”.

Vero, dice Tomasi, non ci sono soluzioni semplici. E per questo chiede un impegno “costruttivo e benvenuto” da parte di tutti, perché il rispetto dei diritti umani è “uno standard globale di condotta”, come viene definito dal Commento al Principio Fondazionale 11. E per questo, Tomasi chiede “uno strumento vincolante” che alzi gli standard morali e cambi il modo in cui le corporation capiscono il loro ruolo e l’attività.

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