La Marcia della Vita è un successo. E intanto le lobby vogliono fermare “Uno di noi”. Ne parlerà il Papa di fronte alle agenzie ONU?

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Erano in 40 mila a sfilare per le strade di Roma per una Marcia della Vita che quest’anno ha avuto un respiro più ecumenico e internazionale. Sono arrivati in piazza San Pietro, e si sono presi il saluto e il sostegno di Papa Francesco. Nello stesso giorno, si celebrava la Giornata dei Bambini Vittime di Violenza organizzata dall’Associazione Meter, e anche i partecipanti erano ad assistere per il Regina Coeli. E anche a loro Papa Francesco ha dato il suo supporto. E a queste due testimonianze visibili di come la Chiesa si impegna per i più deboli e per i non nati se ne aggiunge un’altra, la petizione europea “Uno di noi”, la richiesta per lo stop di finanziare programmi di cooperazione allo sviluppo che sostengano l’aborto, che ha raggiunto i 2 milioni di firme. E proprio su questa campagna si sono lanciati gli strali delle lobby del gender.

Gli strali sono condensati in una lettera all’Unione Europea dell’International Planned Parenthood Federation (che lavora in 172 Paesi) e altre Ong. Nella lettera, le varie organizzazioni che si impegnano per la salute riproduttiva (un eufemismo usato in linguaggio ONU per giustificare i programmi di sviluppo che sostengono l’aborto) attaccano i promotori dell’iniziativa “Uno di noi”. Sostengono che la loro iniziativa è frutto di un pregiudizio religioso. Mettono in luce come questa iniziativa andrebbe a bloccare i fondi della ricerca. Contestano la rappresentatività della piattaforma che ha portato alla promozione “Uno di noi”.

Abbastanza per suscitare una piccata e puntuale risposta da parte dei sostenitori di “Uno di noi”. Una risposta che vale la pena analizzare per comprendere quali siano gli interessi in gioco nel dibattito sulla difesa della vita, e in che modo le lobby usino lo scenario internazionale per portare avanti una loro agenda. Lo aveva denunciato l’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ufficio ONU di Ginevra Silvano Maria Tomasi quando furono pubblicate le osservazioni finali riguardo il rapporto della Santa Sede sulla Convenzione per i Diritti del Fanciullo. E si potrebbe pensare che il prossimo 23 maggio, sulla base dello stesso principio, le osservazioni finali riguardo il rapporto della Santa Sede sulla Convenzione contro la Tortura susciteranno lo stesso risultato.

Nella risposta, “Uno di noi” ha innanzitutto respinto al mittente le accuse di illegittimità democratica dell’iniziativa, che IPPF aveva lanciato sottolineando che “Uno di noi” era “pilotata da quasi esclusivamente gruppi ultraconservatori, religiosi – Cattolici ed evangelici finanziati negli Usa”, mettendo in luce che l’iniziativa voleva imporre “le personali convinzioni religiosi su policy di interesse pubblico”, e accusando che i fondi venivano quasi esclusivamente dalle organizzazioni di due soli parlamentari europei. Ma la provenienza dei fondi è stata resa pubblica da tempo, e le parole delle organizzazioni pro-choice tradiscono “una attitudine profondamente discriminatoria e antidemocratica – dice “Uno di noi” – perché suggerisce che ai cittadini che sono sospettati di essere religiosi non dovrebbe essere concesso di usare gli strumenti di partecipazione democratica” dell’Unione Europea.

Ma chi sono le organizzazioni che hanno firmato la lettera? Uno di noi sottolinea che nessuna delle sigle firmatarie ha “una grande partecipazione popolare”, ma hanno solo “una base di membri molto piccola”, seppur ricevano “una grande proporzione da donatori individuali (soprattutto basati negli USA) come la Bill and Melinda Gates Foundation, la Hewlett Foundation, la Packard Foundation, il George Soros Open Society Institute”. Perché organizzazioni finanziate in larga parte dagli USA poi accusano uno di noi di essere finanziato dagli USA?

Non c’è un interesse personale nella Campagna “Uno di Noi”, che è “realmente motivata dalla preoccupazione per la dignità umana” e per questo “la voce della campagna ha grande peso”. Ed è anche per questo che IPPF e gli altri usano una strategia di comunicazione basata sull’idea del possibile rischio. L’iniziativa potrebbe avere conseguenze negative sulle popolazioni in via di sviluppo, che invece hanno benefici dalle iniziative per la salute riproduttiva. E addirittura “Uno di noi” punterebbe a togliere fondi a queste iniziative, mettendo ancora più a rischio le persone. “Tuttavia, queste affermazioni non sono accompagnate da prove” che siano reali, afferma “Uno di noi”. “IPPF-EN non ha apparentemente letto la nostra petizione, né ascoltato quanto si è detto nell’udienza parlamentare”, aggiunge. E poi spiegano che “la petizione non propone di tagliare i fondi europei per gli aiuti allo sviluppo”, ma chiede solo che quei fondi non vengano utilizzati per l’aborto”.

La risposta di “Uno di noi” affronta anche le basi legali della petizione. Basi legali che si delineano in una sentenza, la Brustle contro Greenpeace, in cui la Corte ha definito il significato del termine “embrione umano” trovando che il temine sia applicabile all’ovulo fecondato dal momento del concepimento e che gli embrioni umani sono dotati di dignità umana. “In ogni caso in cui il termine embrione deve essere interpretato in altri contesti UE, è questa definizione che deve essere applicata”, sottolinea “Uno di noi”. E mette in luce che la Commissione Europea si è impegnata nel programma Horizon 2020 a non finanziare “alcuna attività che direttamente includesse la distruzione di embrioni”. Quindi, in fondo, la richiesta di “Uno di noi” è quella di rendere consistente questo impegno.

Altra accusa che viene fatta, il fatto che la petizione andrebbe a limitare la libertà di ricerca. “L’iniziativa non mette da parte la libertà di ricerca” – risponde la piattaforma della petizione – anche perché a nessuno scienziato viene richiesto con la petizione di non portare avanti ricerche sugli embrioni umani. Si chiede piuttosto “di non dare più fondi europei” per questo tipo di ricerche, anche perché “i fondi che non sono usati per ricerche eticamente controverse su cellule staminali embrionali umane posso essere usate per altri scopi, meno controversi e altrettanto benefici”, dice “Uno di Noi”.

Poi ci sarebbe da definire se le ricerche sulle staminali embrionali umane possono avere uso terapeutico. “Uno di noi” nota come “si sa bene che la ricerca sulle staminali adulte e staminali pluripotenti indotte hanno già portato, e continueranno a farlo, grandi quantità di possibili usi terapeutici”, mentre non ci sono evidenze simili per quanto riguarda staminali embrionali adulte. “Siamo lasciati all’oscuro. Ci viene richiesto di credere che la ricerca che implica la distruzione di embrioni umani sia necessaria, semplicemente perché la commissione lo dice”, sottolinea “Uno di noi”.

Infine, si arriva al problema degli aborti. Oltre la questione legale, “Uno di noi” mette in luce due punti. Il primo, il “mito dell’aborto terapeutico”, cioè che il mito che ci siano casi in cui l’aborto sia un salva-vita per la madre, che potrebbe avere la vita a rischio in caso di prosecuzione della gravidanza. “Sono situazioni che accadono molto raramente”, sottolinea “Uno di noi”, mentre “più frequenti sono le situazioni in cui una donna incinta soffre di una condizione che mette a rischio la sua vita, e in cui la miglior terapia disponibile metterebbe a rischio la sopravvivenza del feto”. Se non c’è dubbio che in entrambi i casi si può decidere di preservare la vita della madre, è anche vero che “queste situazioni poco frequenti spiegano difficilmente la quantità di aborti che IPPF e altri eseguono nei Paesi in Via di Sviluppo”.

Il secondo mito, che le donne abortiranno sempre, e dunque se gli aborti non sono legali, potranno scegliere di abortire in situazioni illegali e non sicure. Ma “le statistiche dicono il contrario”, perché la mortalità della madri dipende da una enorme quantità di differenti condizioni, e la possibilità di abortire è solo una di queste. Tanto che in Paesi sviluppati come l’Irlanda e l’Inghilterra, la mortalità delle madri è di 12 morte su 100 mila nati vivi e in Irlanda di 6 donne morte ogni 100 mila. “Ogni gravidanza – spiega “Uno di noi” – include rischi di salute per la donna incinta, e così ogni aborto. Anche un aborto legale non è mai sicuro. Nella stragrande maggioranza dei casi i rischi per la salute posti da un aborto non riducono ed eliminano i rischi di una gravidanza, se ne aggiungono. Dunque, ridurre il numero di aborti porta a più salute per le madri”.

Questi gli “highlights” della risposta di “Uno di noi”, che sono un sunto anche delle argomentazioni portate avanti dagli organismi internazionali, quando l’ideologia del gender viene inserita persino in trattati sulla riduzione delle armi (nella Convenzione contro le Bombe a Grappolo, la Santa Sede lavorò per inserire il diritto all’assistenza delle vittime, e i lobbysti inserirono la frase che questa assistenza dovesse essere rispettosa del gender) e quando persino l’aborto viene spacciato per un diritto alla vita.

Dopo aver preso posizione durante il Regina Coeli del 4 maggio, Papa Francesco è chiamato a riprendere l’argomento il prossimo 10 maggio, quando dovrebbe incontrare in udienza le agenzie ONU, guidate dal presidente Ban Ki Moon. In occasione della visita di Ban Ki Moon al Papa, Francesco aveva voluto sottolienare l’impegno per una cultura dell’incontro. Cosa dirà di fronte alle agenzie ONU?

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