C’era anche l’emblematico Tommaso

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In preda alla paura, i discepoli stavano rinchiusi in casa. Neanche la testimonianza di Maria Maddalena, che annunzia loro di aver visto il Signore, li aveva scossi dal dubbio e dalla paura. Il Risorto che appare è lo stesso Crocifisso sul Calvario che entra a porte chiuse, si ferma in mezzo a loro e rivolge la parola. Tutto questo conferma che Gesù è vivo, possiede l’esistenza nuova del risorto e non del semplice rivivificato come fu per Lazzaro e altri “risuscitati”.  Giungeranno alla fede dopo che il Risorto darà i segni del riconoscimento. Il mistero pasquale consiste proprio in questo: riconoscere l’identità tra il Cristo martoriato del venerdì santo e il Signore glorioso del mattino di Pasqua e di tutto il tempo della vita della Chiesa. 

Maria è chiamata per nome, ai discepoli mostra le mani e il costato, offre il dono della pace e della gioia, frutto della Pasqua, segni del Signore risorto e vivente che diventano compagni per il cammino della vita dei credenti. Poi alitò su di loro donando lo Spirito. In Giovanni, Pasqua è già Pentecoste: inizia la nuova creazione e nasce la nuova umanità. Il dono dello Spirito consacra i discepoli alla missione di rigenerare e ricreare col rimettere i peccati (Cf Gv 20, 19-31). La Pentecoste manifesterà questa verità fondamentale per tutta la Chiesa.

In questo primo incontro Gesù compie dei gesti che rivelano la prerogativa messianica e insieme danno forma alla Chiesa di Cristo. La pace che Gesù dona, irradiata dalla gloria della risurrezione, è un bene escatologico, cioè “degli ultimi tempi”, in cui Gesù è già entrato. Questa pace la offre all’esperienza di fede degli apostoli i quali si sentono inondati di gioia piena. Poi elargisce tre doni: il conferimento della missione, l’alito su di loro per donare dello Spirito e il potere di rimettere i peccati.

Nel primo dono c’è una sorta di parallelismo: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi (Gv 20, 21). Gesù conferisce ai suoi la missione che ha ricevuto dal Padre suo: dal Padre al Figlio, dal Figlio al credente. Il destinatario della missione universale è il mondo che i discepoli devono evangelizzare e condurre a Cristo. Con il secondo dono, Gesù, mediante una mutazione spirituale e ontologica, compie nei discepoli una nuova creazione: Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati (Gv 20, 22). Come Dio “insufflò” il suo alito di vita nel primo Adamo che divenne persona vivente, così il secondo Adamo, che siede alla destra del Padre, ora alita il suo spirito, quello stesso che aveva emesso spirando sulla croce, sugli apostoli facendone di essi una nuova comunità vivente. Il terzo non è dono semplicemente carismatico, ma un potere di carattere prettamente ecclesiale che il Risorto concede agli apostoli e ai loro successori.

“Ho visto il Signore!”, annunzia Maria ai discepoli. “Abbiamo visto il Signore!” gridano i discepoli a Tommaso. L’apostolo, restio a fidarsi della parola degli altri, è incapace di credere senza vedere; lo scandalo della croce l’ha portato lontano, l’ha rinchiuso in se stesso nel dubbio e nella paura della novità dello Spirito. Tommaso, col suo temperamento pragmatico, scettico e pessimista, non vuole vedere segni e prodigi. Con la crocifissione di Gesù, per lui tutto era finito. Ora gli dicono che il Signore è tornato a farsi vedere. Crederà se vedrà. Eppure, nonostante la mancanza di fiducia, rimane all’interno del gruppo dei discepoli.

Otto giorni dopo, il Risorto concede a Tommaso l’esperienza del “vedere e toccare”. Maria di Magdala entra nella visione di fede quando si sente chiamare per nome. Tommaso vi entra nel momento in cui il Signore risorto gli mostra i segni della morte e della gloria, cioè, i segni della sua identità, che è storia d’amore divino (cf Gv 20, 24-29). La fede è abbandono, non è dimostrazione. Solo l’amore appassionato fa ardere il cuore e fa vedere oltre la soglia. Tommaso esprime la sua fede con quelle parole che professano non solo la messianicità ma anche la divinità di Lui, Crocifisso-Risorto: “Signore mio e Dio mio!” Nell’AT “Signore” e “Dio” corrispondono ai nomi ebraici di Jhwh ed Elohim.

Giovanni non dice se Tommaso abbia risposto all’invito di Gesù, mettendo la mano nelle piaghe. La visione delle ferite gloriose del Signore risana la ferita del cuore di Tommaso. L’incontro col Risorto riaccende non solo la fede ma anche l’amore, così si ritrova ancora con i fratelli. L’incredulo diventa il modello di tutti i credenti.

Tutta la problematica della fede si riassume nell’antitesi: incredulo-credente. Credere è testimoniare e la testimonianza comporta sempre il martirio. Il martire e il vigliacco hanno in comune una stessa pulsione: la paura. Il vigliacco è colui che soccombe alla paura, il martire è chi testimonia con coraggio la fede vincendo la paura e vivendo nella pace donata dal Risorto, pace interiore che fiorisce nella gioia del credere. Non si tratta dunque di quegli strani atteggiamenti prodotti da psicologismi vari di pseudo religiosità dei deboli di mente e di cuore. Con la Risurrezione inizia il vero cammino nel coraggio della fede e nella gioia dell’amore che fa gridare assieme a Tommaso: Mio Signore e mio Dio!  (Gv 20, 28). Invasa dallo Spirito, la comunità ecclesiale non può vivere, all’interno di una storia sentita come ostile, nel luogo chiuso dalle paure con porte sprangate. Avendo al proprio centro il suo Signore e il suo Dio, la Chiesa pasquale ritrova fiducia e sicurezza vivendo il tempo della pace e della gioia, nel coraggio della libertà. Doni sublimi generati dal perdono.

Nessuno di noi ha mai visto Cristo Risorto, però la nostra fede pasquale è fondata sulla testimonianza degli apostoli che, come Tommaso, non hanno creduto se non dopo averlo visto e ascoltato nell’evidenza sperimentale del fatto storico. La nostra fede, anche se ha un fondamento sicuro, manca, tuttavia, del gusto della visione. Proprio per questo, il nostro credere senza vedere è beatitudine di fede. Gesù, infatti, dice a Tommaso: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! (Gv 20, 29). La beatitudine del vedere fu il privilegio riservato agli apostoli, perché inviati a essere testimoni di Cristo e fondatori della sua Chiesa. Tutti i credenti sono chiamati a conoscere Gesù Risorto senza vederlo e sono beati nella beatitudine dei Dodici che hanno visto e rendono testimonianza della loro visione. Afferma san Pietro che questo ci fa esultare di “gioia ineffabile e gloriosa” che fa conseguire la salvezza (cf 1Pt 1,8).

Il passaggio dalla verifica storica alla fede non è quello delle induzioni, ma quello della testimonianza di coloro che hanno visto e creduto. Il Risorto viene e si rivela soltanto nell’annuncio della sua risurrezione. Il Vangelo è la fedele trascrizione di quell’annunzio apostolico dato in dono a quanti non hanno veduto, ascoltato e toccato. L’assemblea eucaristica domenicale è il luogo privilegiato dell’incontro pasquale in cui il nostro Signore e nostro Dio si rivela a noi nel mistero della divina Liturgia, perché, credendo in Lui, abbiamo la vita nel suo nome (Cf Gv 20,31) per vivere in entusiasmo il coraggio della fede e trasformarlo nella gioia della testimonianza.

 

 

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