Divorziati-risposati: Kasper non convince

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In questi giorni – quelli che precedono l’atteso Sinodo di ottobre sulla famiglia – assistiamo ad un variegato andirivieni di ipotesi e proposte, a volte pretestuosamente risolutive, che riguardano uno degli aspetti più complessi della trattazione sinodale, ovverosia la possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati. Non si può certo nascondere, nell’attuale momento storico, un certo fermento “dentro e fuori” le mura di Santa Madre Chiesa che si prepara a celebrare uno tra i sinodi più difficili della storia. E’ altrettanto vero, però, e soprattutto necessario, aiutare tutti  a comprendere meglio i termini delle questioni, che dovrebbero essere trattate sempre in conformità con la dottrina della fede cristiana, con serietà e senza fraintendimenti.
La scorsa settimana “Il Foglio” ha pubblicato la relazione introduttiva del cardinale Walter Kasper al concistoro. Leggendone attentamente la lunga riflessione è stato inevitabile rendersi subito conto di alcuni passaggi poco chiari, dove si lascia spazio a considerazioni (talvolta imprudenti) incomplete o soltanto accennate, dando adito ad una inevitabile confusione e spiazzando la semplicità del fedele che di fronte alle affermazioni dell’illustre porporato resta sufficientemente dubbioso.

Il card. Kasper, per esempio, ricorda che “i sacramenti, anche quello del matrimonio, sono sacramenti della fede”, e che “anche il sacramento del matrimonio può diventare efficace ed essere vissuto solo nella fede”. Ogni sacramento, però, riguarda certamente la fede ma deve conferire la grazia, contenuta e comunicata dalla Chiesa. Nessun fedele – e in questo caso il marito e la moglie – può ragionevolmente definire la stabilità della propria vocazione fuori dall’orizzonte della grazia. Un dettaglio questo che non è possibile dimenticare, e che non dimentica Mons. Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando afferma che “è possibile comprendere e vivere il matrimonio come sacramento solo nell’ambito del mistero di Cristo. Se si secolarizza il matrimonio o se lo si considera come realtà puramente naturale rimane come impedito l’accesso alla sua sacramentalità. Il matrimonio sacramentale – prosegue Müller – appartiene all’ordine della grazia e viene inserito nella definitiva comunione di amore di Cristo con la sua Chiesa. I cristiani sono chiamati a vivere il loro matrimonio nell’orizzonte escatologico della venuta del regno di Dio in Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato”. Walter Kasper ricorda anche che tante persone, nel nostro tempo, hanno perduto la fede; esse sono “battezzate ma non evangelizzate”, “catecumeni battezzati, se non addirittura pagani battezzati”. Pertanto – prosegue il porporato – “In questa situazione non possiamo partire da un elenco di insegnamenti e di comandamenti, fissarci sulle cosiddette «questioni roventi»”. Ma – ci chiediamo – l’annuncio del Regno di Dio operato da Cristo, non prendeva forse le mosse proprio da una serie di insegnamenti e dai comandamenti?

Kasper afferma, inoltre, che “i Padri della Chiesa (in realtà solo “alcuni”, ndr) erano convinti che i comandamenti della seconda tavola del decalogo corrispondessero a tutti i comandamenti della coscienza morale comune degli uomini. I comandamenti della seconda tavola del decalogo, …sono tradizioni dell’umanità concretizzate. In essi, i valori fondamentali della vita familiare vengono affidati alla protezione particolare di Dio: il rispetto dei genitori e la cura per i genitori anziani, l’inviolabilità del matrimonio, la tutela della nuova vita umana che nasce dal matrimonio…”. Per Kasper si tratta di comandamenti che offrono all’uomo un modello, “una sorta di bussola per il loro cammino. Perciò la Bibbia – prosegue il cardinale – non intende questi comandamenti come un onere e una limitazione della libertà… Essi sono indicazioni sul cammino per una vita felice e realizzata Non possono essere imposti a nessuno, ma possono essere proposti a tutti, a buona ragione, come cammino per la felicità”. Non la pensava così San Tommaso d’Aquino, secondo il quale nessuno dei precetti del decalogo può lasciare spazio a deroghe da parte di Dio. Tutti i comandamenti sono necessari; pertanto l’Aquinate affermava che: «Nella legge divina ci sono cose che sono comandate perché buone, e proibite perché cattive, ma ce ne sono altre che sono buone perché comandate, e cattive perché proibite» (S. Th., II-II, q. 57).

Kasper, dopo aver affermato che “in certe situazioni la Chiesa non può proporre una soluzione diversa o contraria alle parole di Gesù”, indica due situazioni con relative soluzioni, lasciando “però” al Sinodo, in sintonia con il Papa, il compito di una risposta finale. Nella prima situazione Kasper, piuttosto che rinviare tutto ai tribunali ecclesiastici – come dice il Diritto Canonico –, proporrebbe altre procedure più pastorali e spirituali, affidando il compito di risolvere alcune cause di nullità matrimoniale a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale. Non è difficile leggere tra le righe un affondo ad alcune forme espressive del Magistero della Chiesa, che possono risultare talvolta di difficile comprensione. Quasi a voler dire che mentre la storia sacra racconta di un Gesù disponibile all’ascolto per le necessità di tutti gli uomini (soprattutto per quanti vivono ai margini della società), la Chiesa mostrerebbe un atteggiamento eccessivamente rigoroso nei confronti di altri escludendoli dai sacramenti. Già Ratzinger (spina nel fianco per tanti commentatori e teologi moderni), in qualità di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a questa obiezione aveva risposto affermando che “i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità”. Del resto nessuno di noi può arrogarsi il diritto di annacquare, per opinabili motivi pastorali, le verità della fede cristiana.

Nella seconda situazione, Kasper ricorda quanto stabilito nel 1994 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e riaffermato da Papa Benedetto XVI nel 2012, e cioè che, in alcuni casi, i divorziati risposati che non possono ricevere la comunione sacramentale possono però ricevere quella spirituale. Ma – altro affondo dell’illustre porporato – se “chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo; come può quindi essere in contraddizione con il comandamento di Cristo? Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale?”. Noi, però, stando così le cose, potremmo chiederci: perché non adottare un analogo ragionamento a proposito del sacramento della Confessione? Se, infatti, il fedele mostra una reale contrizione per il proprio peccato, e chiede “spiritualmente” perdono a Dio senza la mediazione del sacerdote, perché non concedergli l’assoluzione?  Non sarebbe da considerare valida anche questa ipotesi? E’ evidente che se percorriamo il criterio del sentimento spirituale, svuotiamo l’essenza stessa del sacramento, e – né più, né meno – ci ritroveremmo in brevissimo tempo sulla stessa lunghezza d’onda teologica della religione protestante!

Kasper parla poi della Chiesa dei primordi ricordando alcuni casi di adulterio con conseguente secondo legame quasi-matrimoniale. “La cosa certa, però, – afferma il porporato – è che nelle singole Chiese locali esisteva il diritto consuetudinario in base al quale i cristiani che, pur essendo ancora in vita il primo partner, vivevano un secondo legame, dopo un tempo di penitenza avevano a disposizione non una seconda nave, non un secondo matrimonio, bensì, attraverso la partecipazione alla comunione, una tavola di salvezza”. Ma cosa ne pensavano davvero i Padri della Chiesa? Kasper ne cita alcuni presentandoli favorevoli a questa ipotesi. Henri Crouzel, noto gesuita e patrologo, a tal proposito affermava: “Nell’epoca in cui, come oggi nella maggior parte dei paesi, la legge civile permetteva divorzio e nuove nozze, che cosa impediva ai pastori d’esprimere chiaramente ciò che essi pensavano, se credevano che ciò era la volontà di Cristo? E se la Chiesa autorizzava i mariti a contrarre nuove nozze dopo l’adulterio delle loro mogli, come mai ne rimangono così poche tracce, mentre abbondano trattazioni generali sull’indissolubilità del matrimonio?”. Non si può parlare – come invece asserisce il card. Kasper – di una pastorale della tolleranza, della clemenza e dell’indulgenza nella Chiesa dei primordi, né possiamo fa passare per prassi consolidata alcune “eccezioni” che confermano la regola; non si tratta nemmeno di dettagli storici o di controversie tra esperti, e la Chiesa – nelle sue decisioni – (ci dispiace che il card. Kasper la pensi in modo totalmente diverso) non è “fissata” sull’una o sull’altra posizione. “Una pastorale pienamente responsabile – ricorda Gerhard Ludwig Müller – presuppone una teologia che si abbandoni a Dio che si rivela «prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa»”. “Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia – sottolinea ancora mons. Müller – si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”.

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