Benedetto XVI, il Papa della modernità

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A un anno di distanza lo si può dire: eravamo tutti sgomenti. Lo era il mondo intero. Ma i giornalisti che avevano per anni seguito Benedetto XVI, che da decenni ormai scrivevano di Vaticano, una cosa così non l’avevano mai vista. Benedetto XVI aveva rinunciato al ministero petrino. Un annuncio detto in latino, in maniera calma e serena, in un giorno di festa vaticana, quando nulla si pensa che possa succedere. Lui era sereno. Noi eravamo sgomenti. A ripassare i volti di ciascuno, nessuno sapeva darsi una spiegazione. Perché in fondo l’unica spiegazione logica era una. E cioè che Benedetto XVI non era stato compreso. Per anni era stato raccontato un Papa diverso. Un Papa conservatore, tradizionalista, attaccato a un vecchio modello di Chiesa. Non era vero, ed era difficile per molti ammetterlo. Benedetto XVI in un colpo solo ha cancellato i pregiudizi. Con il gesto più moderno che la storia della Chiesa moderna ricordi.

Vale la pena riallacciare il film della memoria, ora che a mente fredda si può ripercorrere tutto il pontificato di Benedetto XVI. Non c’è l’emotività di quei giorni, non c’è nemmeno l’entusiasmo per l’inizio di un nuovo pontificato. C’è da ricordare e raccontare. E ricordando e raccontando, diventa evidente che Benedetto XVI è stato uno dei Papi più moderni che la storia abbia mai avuto.

Dici: era un professore, un uomo che aveva fatto solo una esperienza da vescovo, a Monaco, considerata da alcuni critici disastrosa. Dici: era un uomo che era stato solo viceparroco, che si era dedicato agli studi e agli studi voleva tornare. Eppure la larghezza di pensiero, la comprensione delle cose viene solo se sei abituato a ragionare, comprendere e spiegare. Benedetto XVI è stato un Papa moderno perché moderno era il suo pensiero. Non c’era fideismo nel suo modo di vivere la fede. C’era gioia. La gioia di colui che aveva compreso. La gioia di colui aveva capito la fede con l’uso della ragione. Non c’era una fede cieca, c’era una fede sicura. È questo che rende un uomo distaccato da tradizioni, superstizioni, moralismi. La gioia di una fede viva e razionale.

Benedetto XVI lo aveva detto ai vescovi della Svizzera, parlando a braccio, a un anno dalla sua elezione: non servono i precetti, non si può insegnare il moralismo, si deve testimoniare la gioia della verità della fede. Gioia è una parola che è ricorsa spesso nei suoi discorsi. Specialmente all’inizio, quando ancora il professore un po’ prevaleva sul Papa.

Ma è di fronte a questa larghezza di pensiero che tutte le prospettive vengono cambiate, in tutti i campi. Benedetto XVI governa con il piglio di chi sa dove sono i problemi e con l’equilibrio di chi sa che non tutto si può cambiare con il decisionismo. Ha una sua idea di Chiesa, conosce le persone che lo possono aiutare a realizzarla. Ma aspetta che chi c’era prima vada a scadenza naturale di mandato. Non ci sono grandi cacciate, nel pontificato di Benedetto XVI. C’è, piuttosto, una gestione collegiale del potere. Un rivolgersi a tutti, il nemico di sempre o l’amico fedele, per comprendere le questioni più importanti, per trovare le soluzioni. Nello scegliere le persone, Benedetto XVI va oltre gli interessi di cordata. In fondo, lo dice dall’inizio: si deve stare lontani dalla tentazione del carrierismo.

E’ un metodo di una modernità così grande che è difficile comprendere. Ci sarebbero molti episodi da raccontare. Un primo esempio: la risposta allo scandalo della pedofilia del clero in Irlanda. È un problema noto, i vescovi irlandesi sono già stati a Roma. Benedetto XVI li ha ascoltati, ha messo in ordine i problemi, si è fatto una idea dei responsabili. Ma la sua risposta sconcerta e spiazza tutti. Scrive una lettera ai cattolici di Irlanda. La indirizza a vescovi, sacerdoti, semplici fedeli. Ci sono le scuse per quanto accaduto. C’è la cura delle vittime, l’annuncio di una visita apostolica. E c’è la richiesta alla Chiesa di Irlanda di mettersi in penitenza per la Quaresima, di interrogare la propria coscienza. Non c’è nessuna rimozione coatta, perché un Papa non governa e basta. Un Papa fa in modo che tutti si rendano conto dei propri errori. Un Papa è un pastore tra i pastori, e dà ai pastori la possibilità di redimersi.

È shockante, se letto con i criteri secolari. Ma è profondamente cristiano.

Come profondamente cristiano è stato il suo approccio verso il vulnus con il mondo tradizionalista. Avevano imputato al Papa di aver aperto ai lefevbriani perché lui era in fondo un tradizionalista. Non lo dimostravano forse i suoi abiti elaborati, le liturgie difficili? Ma la spiegazione era in realtà più semplice. Benedetto XVI puntava ad una Chiesa unita, cercava di guarire le ferite. Un Papa è un pastore che non chiude le pecore nel recinto. È piuttosto un pastore che le pecore le educa, e le riconduce con la ragione nel campo. Non a caso si chiama “Universae Ecclesiae”, chiesa universale, l’istruzione sull’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, che liberalizza il rito antico.

Con Benedetto XVI non c’è sanzione, c’è dialogo. Il metodo è quello della Congregazione della Dottrina della Fede, che Joseph Ratzinger aveva perfezionato quando vi era prefetto. Un dialogo costante con gli autori esaminati, la ricerca di una dialettica che facesse comprendere ai “presunti eretici” quali erano i limiti cristiani del loro ragionamento. E, in caso di condanna, la produzione di due documenti, uno pars destruens e l’altro pars costruens di un processo dialettico.

Non a caso, il cardinal Tarcisio Bertone richiamò questo modello in un incontro con i capi dicastero della Curia romana, il 25 gennaio 2012, quando già erano venute fuori le prime avvisaglie del modello Vatileaks. Non fu ascoltato. La collegialità è difficile da portare avanti, se non tutti remano nella stessa direzione.

Ma Benedetto XVI proseguiva imperterrito con le sue riforme. Mentre i suoi discorsi spiegavano con parole semplici il Vangelo e lo proiettavano verso lidi altissimi e inaspettati, lo Stato da lui governato si modernizzava. Sotto di lui, comincia il percorso europeo della Santa Sede verso la trasparenza finanziaria, portato avanti non più con l’idea di essere vicini dell’Italia, ma di essere uno Stato nel cuore dell’Europa. Sotto di lui, si riforma la prefettura degli Affari Economici, ora con le competenze di un ministero delle finanze. Sotto di lui, comincia il procedimento di ammodernamento dello Stato di Città del Vaticano.

Soprattutto, Benedetto XVI dà nuovo impulso alla diplomazia pontificia. La radica sul concetto di verità, e non sui rapporti tra gli Stati. Si sviluppa il multilateralismo semplicemente perché non ci sono rapporti privilegiati da stringere con gli Stati. La verità è super partes, la testimonianza di fede viene prima dei vicini comodi o scomodi. Cambiano i discorsi dei diplomatici della Santa Sede, e si cominciano a rivivere le grandi lotte sui principi che avevano caratterizzato una parte del pontificato di Giovanni Paolo II.

Lotte sui principi che sono necessarie ancora di più oggi,  quando addirittura un comitato delle Nazioni Unite pretende che a cambiare sia la legge canonica.

Ad ogni modo, Benedetto XVI è uomo moderno e di buon senso. Sa che la legge canonica è una base fondamentale per rafforzare la Santa Sede e portare avanti la necessaria riforme delle strutture. Ma sa anche che l’annuncio viene prima di ogni cosa. Anche prima della struttura che rende possibile il Vangelo. E lo dice, nella sua Germania, di fronte a una Chiesa ricca ma che ha perso in fondo il senso primario delle strutture, che ha perso di vista il Vangelo. Ci vuole la demondanizzazione, le ondate di secolarizzazione sono positive perché permettono alla Chiesa di guardare nelle sue vere radici.

Ma la cosa bella è che Benedetto XVI questa consapevolezza è stato in grado di definirla e spiegarla con la passione dello studioso, ma l’ha maturata in parrocchia, nella Chiesa del Preziosissimo Sangue dove lui, appena ordinato sacerdote, fu mandato da viceparroco. Ore a confessare, per comprendere Comprese che non era più una Chiesa di pagani diventati cristiani, ma di una Chiesa di cristiani che si chiamano ancora cristiani eppure sono pagani. E da lì che allarga il suo pensiero, che arriva a comprendere la crisi dell’uomo contemporaneo.

Sembra un paradosso, ma Benedetto XVI è il Papa della modernità perché è stato un Papa che ha saputo mettersi in ascolto di Dio, e che poi ha cercato di spiegare questo ascolto. Un Papa così moderno da scrivere libri come il Gesù di Nazaret e slegarli dal ministero petrino, consapevole che la teologia in fondo è un modo sempre perfettibile di raccontare Dio. Un Papa così moderno perché un Papa che si è nutrito della gioia della fede. 

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