“Eccellenza” al femminile e il dilemma delle donne cardinale

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Madre Teresa di Calcutta (uno tra i tanti esempi luminosi di “eccellenza” al femminile) non aveva certamente bisogno della “porpora cardinalizia” per esprimere – nella semplicità straripante di piccoli e grandi gesti di carità quotidiana – quell’autorevolezza evangelica che il buon Dio permette che passi attraverso i nostri limiti e le nostre miserie. Che dire poi – scavando nel passato – dell’autorevolezza, “non solo evangelica”, di santa Caterina da Siena? Un esempio di donna che seppe tenere testa a papi, re e regine, e che – attraverso una serie di lettere da lei scritte – ricordava alle più alte cariche istituzionali presenti in Europa i doveri del loro servizio istituzionale.

“Ai re – scrive Giovanni Paolo II nella Spes Aedificandi, 7 – ricordava che non potevano governare come se il regno fosse loro «proprietà»: consapevoli di dover rendere conto a Dio della gestione del potere, essi dovevano piuttosto assumere il compito di mantenervi «la santa e vera giustizia», facendosi «padri dei poveri» (cfr Lettera n. 235 al Re di Francia). L’esercizio della sovranità non poteva infatti essere disgiunto da quello della carità, che è insieme anima della vita personale e della responsabilità politica (cfr Lettera n. 357 al re d’Ungheria). Con la stessa forza Caterina si rivolgeva agli ecclesiastici di ogni rango, per chiedere la più severa coerenza nella loro vita e nel loro ministero pastorale”. Con analoga fermezza Caterina si rivolgeva al Papa, a cui attribuiva il titolo “dolce Cristo in terra”, per esortarlo a ritornare da Avignone (ostaggio dei sovrani di Francia) a Roma.

Il sacerdozio comune – un vero punto di forza per ogni battezzato – non possiede un minor grado di santità rispetto al sacerdozio ministeriale (riservato a chi sceglie la vocazione sacerdotale). Se nella Chiesa, Corpo di Cristo, vi sono tante membra e diverse funzioni, questo non vuol dire che non sia uno solo lo Spirito, capace di offrire i suoi doni a seconda delle necessità e dei servizi. “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, – leggiamo al n. 10 della Lumen Gentium – quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa”.

Insomma, l’erba del vicino non dovrebbe poi apparire così tanto verde come qualcuno crede! Certo che la Chiesa è fatta da uomini e donne (o da donne e uomini!) e nessuno vuole escludere gli uni e gli altri. Ma perché accusare la Chiesa di operare rigide e sclerotizzanti disparità, mostrandosi incapace di adattarsi ai tempi? Talvolta si ha l’impressione che l’idea o la pretesa di operare all’interno della Chiesa alcuni cambiamenti in ordine teologico o di prassi ecclesiale, non favoriscano una vera e propria crescita negli ambiti della fede cristiana. Ci si appella, così, al Concilio Vaticano II – magari senza averne mai sfogliato i documenti –, e da otto mesi a questa parte “si presume”, addirittura, che alcune eclatanti aperture teologiche le abbia anticipate “fra le righe” dei suoi discorsi Papa Francesco.

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