I cristiani in Iraq: come fermare il loro esodo nascosto

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Disarmo. Lavoro. Educazione alla tolleranza. Ma soprattutto, comunione tra tutte le confessioni religiose. Una comunione necessaria, come riconosciuto dagli stessi vescovi iraqeni. I quali – racconta mons. Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Iraq – sono tutti coscienti che il primo passo da fare è “prendere coscienza delle proprie divisioni, riconoscerle, per poi cercare le piste di comunione, il che non è facile perché non tutti hanno le stesse idee, le stesse strategie, le stesse priorità, gli stessi metodi, le stesse risposte, le stesse sensibilità. Su questo c’è molto da lavorare”.

Mons. Lingua ha raccontato la sua esperienza di nunzio in Iraq lo scorso 8 ottobre, in occasione dell’apertura dell’Anno Accademico  dello Studio Teologico Interdiocesano di Fossano (CN). In una lunga panoramica di tutte le chiese cristiane d’Iraq, mons. Lingua racconta la storia di una terra martoriata. In cui non c’è più, forse, una persecuzione sistematica dei cristiani (perlomeno mons. Lingua sottolinea di non notarla). Ma in cui i cristiani devono vivere le pressioni cui sono soggette tutte le minoranze religiose. Tanto che addirittura si è pensato di creare una nuova provincia, a Ninive, una sorta di “sacca” per permettere alle minoranze di rifiatare, auto garantirsi la sicurezza e favorire lo sviluppo della regione.

Su quest’ultimo punto, mons. Lingua ci tiene a chiarire prima di tutto che “ogni iracheno deve aver il diritto di vivere in pace e sicurezza in ogni punto del Paese e deve poter scegliere liberamente dove installarsi e lavorare”. Detto questo, sottolinea che “se nel contesto attuale, però, la creazione di una nuova provincia, può offrire a chi intende lasciare il Paese, per ragioni diverse, una opportunità di fermarsi, ben venga”. Ma questa nuova provincia, aggiunge, “non deve essere una provincia cristiana e neanche una riserva per cristiani”, e soprattutto non deve andare a detrimento di altri, altrimenti “non è una buona soluzione, diventa discriminatoria”. E poi, soprattutto, si tratta di una una questione politica, la cui decisione spetta in primo luogo ai cittadini, che dovranno esprimersi democraticamente tramite referendum”.

Certo, i cristiani non vivono una situazione felice in Iraq. Mons. Lingua è arrivato a Baghdad a metà novembre 2010, due settimane dopo l’attentato alla Chiesa cattedrale siro-cattolica dove hanno perso la vita 44 fedeli, due sacerdoti, 5 membri delle forze dell’ordine e 5 terroristi. “Tra i “martiri” – racconta Lingua – anche un bambino di tre anni che dopo un po’ di tempo i genitori non sono più riusciti a trattenere. Uscito dai banchi, sotto i quali si erano tutti rifugiati, si è rivolto ai terroristi che avevano sparato anche sulle immagini religiose, tra cui un quadro del Sacro Cuore, gridando: ‘basta, basta, basta, avete rovinato Gesù!’. Anche lui è stato freddato senza pietà”.

Solo a Baghdad – dice mons. Lingua – “una ventina di Chiese hanno subito attentati. In un giorno solo, il 1° agosto 2004, ben 5 Chiese sono state colpite in Baghdad ed una in Mossul.  Tra il 2004 e il 2010 una decina di sacerdoti sono stati rapiti, 4 di essi uccisi. Anche un Vescovo,Mons. Boulos Faraj Rahho, Arcivescovo caldeo di Mossul, è morto in mano ai rapitori” . Chiosa Lingua: “È ovvio che in queste condizioni, che si sommano ad una situazione di disagio e insicurezza generale, molti cristiani se ne siano andati ed altri cerchino di lasciare il Paese”.

E nel frattempo, c’è anche un fenomeno migratorio verso l’Iraq, dove è in aumento il numero di cristiani provenienti da paesi poveri in cerca di lavoro. Badanti dalle Filippine, infermiere dall’India, manovali dallo Sri Lanka, etc. Certo, il fenomeno non è ancora particolarmente significativo, ma si registra una tendenza, a cui occorre porre attenzione.

Così, da una parte c’è la nuova comunità di cristiani, attratti dalle nuove opportunità. E dall’altra, c’è la comunità cristiana più antica del mondo. “I cristiani iracheni – racconta Lingua – sono in gran percentuale i discendenti dei più antichi popoli abitanti la mesopotamia, sumeri, accadi, assiri e babilonesi in particolare e sono tra le più antiche comunità cristiane nel mondo. La maggior parte di loro parla un dialetto derivante dall’aramaico, il sureth, conosciuto comunemente come “cristiano”, tant’è che si dice che uno parla “cristiano” quando si esprime in dialetto sureth. In un villaggio del nord dove vivono cristiani e musulmani mi dissero: questi musulmani sono buoni, parlano perfino cristiano!”

Ma questa comunità cristiana è erosa dal proselitismo degli evangelici, arrivati soprattutto con l’invasione USA del 2003, e dagli attacchi che subiscono come minoranza, dalla minaccia costante per la sicurezza che quasi li costringe ad andare via.

Come fermare l’emorragia di cristiani dall’Iraq?

Mons. Lingua sostiene che prima di tutto si deve puntare al disarmo. “Troppe armi sono in circolazione – dice Lingua – e, purtroppo, le armi sono fabbricate e poi comprate per essere usate. Il conflitto in Siria ha evidentemente influito sull’aumento degli attentati in Iraq. Nel solo mese di maggio scorso oltre 1400 iracheni hanno perso la vita in attentati terroristici, il mese più violento dal 2008, e a settembre si è superata la cifra dei 1000 morti. Le armi se circolano prima o poi vengono usate. E quando diventano vecchie si vendono a prezzo inferiore, ma rimangono letali!”

Poi, si devono creare occasioni di lavoro, “eventualmente attraverso una azione positiva di favoreggiamento o di quote per le minoranze, anziché, come in certi casi succede, di discriminazione. Va dato atto al Governo che ha dimostrato sensibilità in questo senso. Ma si può fare sempre di più”.

E infine, sottolinea Lingua, c’è bisogno “un’opera di educazione alla tolleranza ed un lavoro di formazione nelle scuole, soprattutto nei libri di storia adottati che, mi dicono, trascurano quasi del tutto la storia pre-islamica in questo Paese, che pure è ricchissima. Tutte le minoranze, cristiane e non, come gli yezidi, i sabei e i mandei, sono ben anteriori all’arrivo dell’Islam”.

Cosa invece possono fare i cristiani in Iraq?

Il sinodo per il Medio Oriente ha incoraggiato i cristiani a restare. Per mons. Lingua, i cattolici iraqeni devono “sentire la presenza come una missione e sviluppare scuole, investire in educazione e mezzi di comunicazione sociale, testimoniare la carità, sollecitare la solidarietà internazionale e gli investimenti soprattutto nelle zone con un’alta percentuale di cristiani: in questo momento sono particolarmente urgenti investimenti nel campo immobiliare”.

Ma non tutto è negativo, qualcosa si sta muovendo. Ci sono due ospedali in costruzione, uno ad Erbil e l’altro a Quaraqosh; una Università, sempre ad Erbil; la restituzione di molte scuole confiscate ai cristiani dal precedente regime a Parrocchie e Congregazioni religiose, etc…

Segnali che rendono ottimista Lingua. “Quando guardo quel cielo – conclude – e provo a contare le stelle che vi brillano e penso che è lo stesso cielo che ha visto Abramo, sono le stesse stelle che lui ha provato a contare, mi commuovo. Tutta la storia di amore tra Dio e l’umanità ha avuto inizio lì! Come posso pensare che Dio se ne sia dimenticato? Credo che per il cristiano iracheno la fede in Dio che aveva mosso Abramo, la fede nel Suo amore, non si possa discutere. Per questo sono ottimista. Direi che “fede” e “missione” sono le due caratteristiche tipiche dei cristiani iracheni”.

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